REDAZIONE AREZZO

"Perché il maxi-aumento di capitale da 600 milioni non poteva salvare Banca Etruria"

Ancora anticipazioni dalla relazione del liquidatore Santoni che è a disposizione della corte d'appello cui tocca di decidere sul ricorso Rosi contro l'insolvenza. Per il commissarrio mancava un consorzio di garanzia

Lorenzo Rosi

Arezzo, 23 maggio2016 - POTEVA un maxi-aumento di capitale salvare Banca Etruria prima dal commissariamento e poi dalla liquidazione? E’ uno dei temi centrali della questione Bpel ed è anche il punto focale sulla base del quale l’ultimo presidente Lorenzo Rosi chiede l’annullamento della sentenza di insolvenza pronunciata dal tribunale fallimentare di Arezzo l’11 febbraio. La posizione della difesa Rosi è chiara: Banca d’Italia doveva lasciarci la possibilità di convocare un’assemblea dei soci. Se lì l’aumento di capitale non fosse stato deliberato, il crac sarebbe stato inevitabile, ma se i 60 mila azionisti avessero detto sì allora la storia di Etruria sarebbe stata totalmente diversa. Uno scenario che è già stata bocciato dai giudici fallimentari di primo grado e sulla quale semina scetticismo a piene mani anche la relazione sullo stato di insolvenza che il liquidatore Giuseppe Santoni ha depositato in procura che farà da base all’inchiesta per bancarotta. Le motivazioni del tribunale e del commissario, tuttavia, sono almeno in parte diversa. Perchè se per il primo l’aumento di capitale non sarebbe servito niente in mancanza di una marcata correzione della politica creditizia (come buttare acqua in una bottiglia sfonda, per usare un’immagine colorita), Santoni dubita profondamente che un’operazione del genere potesse essere portata a termine.

SI TRATTAVA, argomenta, di mettere in atto una ripatrimonializzazione «di improbabile successo, in quanto non assistita da un consorzio di garanzia». In sostanza, spiega, l’ultimo vertice della banca concepisce l’aumento di capitale da 600 milioni «per far fronte al venir meno della continuità aziendale, come risultante della situazione contabile al 31.12.2014». Per capire conviene tornare al bilancio mai approvato dal Cda riuniti proprio l’11 febbraio 2014 perchè nel corso della riunione arrivarono i commissari con il decreto di amministrazione straordinaria ». In quel consuntivo rimasto a mezz’aria si registrava un deficit di 520 milioni, che avrebbe quasi azzerato il capitale sociale e portato Bpel sotto il livello minimo del patrimonio di vigilanza previsto da Banca d’Italia. Ecco perchè l’11 febbraio, quando arrivarono in sala i commissari, il Cda aveva appena votato la convocazione dell’assemblea che avrebbe dovuto decidere l’aumento di capitale, poi mai avvenuta per lo scioglimento degli organi sociali.

IN ALTRE parole, il piano del management di Banca Etruria era chiaro: abbattere il patrimonio portando a bilancio tutte le perdite da sofferenza e poi ricostituirlo con un aumento di capitale da oltre mezzo miliardo, con nuovi soci da trovare sul mercato. E qui arriva l’obiezione di Santoni: non c’era un consorzio di garanzia, cioè quel paracadute che garantisce la sottoscrizione delle nuove quote ove restino inoptate dagli azionisti, vecchi e nuovi. Un po’ come è successo con Popolare di Vicenza nelle ultime settimane, dove nessun investitore privato ha partecipato all’aumento di capitale, ma se ne è fatto carico il fondo Atlante, subentrato a Unicredit, che ora ha il 99% del capitale. Per Etruria, è la tesi del liquidatore, non c’era niente del genere e tutto lascia pensare che l’aumento di capitale non avrebbe avuto successo nè tra i vecchi nè tra i nuovi azionisti. Eppure, l’ex presidente Rosi si è sempre detto convinto che avrebbe trovato se non privati e banche almeno fondi internazionali pronti a subentrare nel controllo di Bpel. E’il nodo centrale. L’ultima parola spetta ora alla corte d’appello, la cui decisione è attesa a giorni se non ad ore. E i giudici hanno in camera di consiglio una copia della relazione Santoni.

Salvatore Mannino