Il diario della grande paura: lo smart-sindaco profeta del lavoro a distanza

Ghinelli confessa: così più efficiente di prima. Diventerà probabilmente una delle principali eredità del «dopo», l’anticipo della città del futuro

Alessandro Ghinelli

Alessandro Ghinelli

Arezzo, 9 maggio 2020 - Più che un sindaco, è uno smart-sindaco. Lo dice lo stesso protagonista, Alessandro Ghinelli, padrone di Palazzo Cavallo, nel corso del consueto «caminetto» pomeridiano. La sua efficienza, racconta, è molto aumentata da quando è cominciata l’emergenza: ora riesce contemporaneamente a gestire una videoconferenza, smanettare su whatsapp per rispondere al cittadino o al funzionario che lo interpella, magari a dare anche una disposizione a voce ai pochi che sono rimasti in Comune.

Superman in cima al Colle? No, solo una metafora di tutti noi che, ancora chiusi dentro casa, ci colleghiamo per via telematica con i colleghi, chattiamo con gli amici e magari riusciamo anche a dare un’occhiata agli affari di famiglia. Il sindaco, giustamente visto il suo ruolo, ci rappresenta tutti: va in diretta Facebook ogni sera, rigorosamente alle 18,30 (con share, dicono, altissimi per una città di provincia), si tiene aggiornato e interviene sui social, trova persino il tempo di una comparsata in tv per battagliare col suo eterno rivale, il direttore della Usl Antonio D’Uso, col quale i rapporti sono quantomeno alterni (eufemismo).

E lo stesso accade a ciascuno di noi: stiamo al computer, usiamo ormai da semispecialisti quelle diavolerie tecnologiche che prima erano quasi sconosciute, esistevano già ma solo pochi le usavano. Skype, già noto, serviva quasi soltanto per lunghe videochiamate con il parente e l’amico che stavano dall’altra parte del mondo,

Zoom, che consente teleconferenze con decine di partecipanti, chi l’aveva mai sentito nominare, se non gli ultra-aggiornati? Idem dicasi per Meet e simili. Sono diventati nel frattempo gli strumenti fondamentali di quella che potrebbe essere probabilmente, insieme alla Grande Paura e al senso di tragedia che hanno impregnato le nostre vite, la principale eredità del virus nel «dopo», cioè lo smart working, altresì detto lavoro agile (definizione burocratica), telelavoro o lavoro a distanza.

Non c’è più bisogno, come nel «prima», della sveglia che suona, di vestirsi in giacca e cravatta (casual negli ambienti meno formali), di infilarsi in auto o nel bus (dove ora i posti sono dimezzati) e di affrontare lo stress da traffico nell’ora di punta.

E’ tutto più rapido e informale: un pigiamaccio o una tuta, un paio di ciabatte e via davanti al computer di casa, con una produttività che (forse ha ragione il sindaco) è più alta di quella di prima. Inutile dire che tutto ciò vale solo per gli uffici: in fabbrica la regola è ancora il lavoro fisico, nè si intravvedono modi di produzione alternativi.

Il che non toglie che uno come Fabrizio Bernini, presidente degli industriali oltre che titolare di un’azienda ultratecnologica come la Zucchetti, sia così entusiasta dello smart working che sta meditando di non far rientrare in azienda molti dei quasi 200 dipendenti al telelavoro. Da casa realizzano software con ancora maggiore qualità. Si stanno adeguando persino baristi e ristoratori che con l’asporto consegnano caffè & C. a quelli del lavoro agile.

Uno di loro, Andrea Fazzuoli, pensa già che diventerà una modalità inevitabile anche in futuro: i clienti se ne stanno a casa davanti al computer? Allora noi li serviamo dove sono, consegna a domicilio per salvare la cassa. Non è, intendiamoci, la panacea di tutti i mali, ma più gente in smart working significa meno traffico, meno affollamento sui bus, quindi meno smog. Che sia questa l’Arezzo di domani? I nostalgici già rimpiangono il caffè con quattro amici del bar.