
Paolo Martini
Arezzo 23 ottobre 2019 - Forse i veri geni della creatività sono quelli che hanno un gene di follia. Così come sono i momenti difficili e i dolori del vivere a spingere ad esprimerli nel più varie forme possibili. Immaginiamo quale mondo interiore possano raccontare uomini e donne rinchiusi nei manicomi, quelli dei primi anni del Novecento più simili a prigioni con cure più simili a torture. Lo capirono i primi psichiatri “rivoluzionari” di cui Arezzo è stata la casa e terreno fertile di sperimentazione come Basaglia, Pieraccini, Pirella. Testimonianze storiche ora tutte conservate all’università aretina del Pionta, proprio la ex sede dell’ospedale psichiatrico aretino che dopo l’archivio Pirella, dopo l’archivio sonoro di Anna Maria Bruzzone con le voci registrare dei pazienti, d’ora in poi custodirà anche l’ultimo importante tassello, l’archivio della famiglia Martini donato al Dipartimento universitario aretino da Paolo Martini, ultimo esponente di una famiglia di psichiatri che hanno operato nell'ospedale neuropsichiatrico di Arezzo dal 1904 al 2012. Una doppia lettura dunque la mostra “Arte e follia” allestita fino a fine ottobre nell’aula magna della biblioteca al Pionta e l’archivio Martini che si intrecciano perché entrambe raccontano il percorso della psichiatria aretina. Dietro a quadri potenti per forme e colori, molti dei quali firmati Lorenzo Fortuna e Livio Poggesi, che gli infermieri dell’ospedale compravano per poche lire per incoraggiarli, c’è lo studio di un nuovo corso di cura e di espressione del proprio disagio.
Una iniziativa che fra gli anni Cinquanta e Settanta attirò l’attenzione della stampa nazionale diventando anche caso scientifico. Così importante che il maestro dell’atelier di pittura del manicomio era il pittore Franco Villoresi. Quel laboratorio fu voluto da Furio Martini, padre di Paolo Martini. Ed ecco che il cerchio si chiude con la famiglia Martini e con il convegno che è stato organizzato al Pionta che ha visto partecipare la critica d'arte Bianca Tosatti, ideatrice del concetto di "Arte irregolare” e la storica dell'arte Giulia Pettinari, il professor Sebastiano Roberto docente di storia dell'architettura all'Università di Siena, lo storico dell'arte Paolo Torriti oltre a Marica Setaro e Lucilla Gigli che hanno allestito la mostra di documenti sulle creazioni artistiche dei malati e sull'utilizzo delle architetture e degli ambienti della struttura manicomiale aretina. Tre generazioni di psichiatri, dunque, hanno segnato la traccia per la gestione di una nuova psichiatria ad Arezzo che ha fatto da battistrada per la riforma psichiatrica per oltre cento anni. Gaetano, Furio e Paolo Martini: nonno, padre e figlio. Gaetano e Furio Martini durante le direzioni Pieraccini e Benvenuti, e Paolo Martini durante la direzione di Agostino Pirella, hanno fatto di Arezzo una delle esperienze più significative per la revisione totale della cura psichiatrica in Italia fino alla definitiva chiusura del manicomio nel 1989. La storia familiare prende avvio con Gaetano Martini che, laureatosi in medicina e chirurgia a Bologna agli inizi del Novecento, segna l’inizio di grandi conquiste, comincia con l’istituzione del manicomio in Italia (legge Giolitti del 1904) e prosegue con il suo superamento con la riforma del 1978, con la “legge Basaglia”.
Un percorso di studi, scoperte, innovazioni sia sulla rilettura degli ambienti dell’ospedale ricostruito come un villaggio, sia sull’approccio più umano nell’assistenza con una attenta formazione del personale infermieristico, sia sulle attività psicoterapeutiche di gruppo e di comunità. Un percorso che culminerà nel nuovo servizio territoriale di salute mentale di Arezzo, che vede Paolo Martini tra i sui fondatori e dirigenti “storici”. Un percorso che con questa donazione non si cancellerà: “Io sono l’ultimo della famiglia a fare lo psichiatra - spiega Martini - mio nonno ha lavorato a Macerata e anche qui ad Arezzo con Pieraccini, mio padre ha lavorato qui con Pieraccini e Benvenuti e io con il mio gruppo ho contributo a far chiudere lo psichiatrico e ho diretto il dipartimento di salute mentale ad Arezzo e a Siena, tre generazioni lungo un secolo. Nell’archivio ci sono tanti lavori scientifici, in particolare mio padre nel suo ambulatorio teneva le schede di attività da quando ha iniziato ad Arezzo negli anni Trenta e fino agli anni Sessanta. E’ stato mio padre ad aprire qui ad Arezzo l’atelier di pittura con Villoresi che ha dato i primi rudimenti di pittura ai malati, poi la scuola si è sviluppata e ne sono uscite vere opere d’arte. Tra quelle schede una mi ha colpito in modo particolare, una perizia di mio nonno, poco prima della seconda guerra mondiale, riguardava una donna ricoverata per una grave depressione dopo il parto, era in un momento confusionale, diceva di voler uccidere la figlia, un disturbo serio. Ma mio nonno quando la donna è migliorata l’ha voluta dimettere nonostante all’epoca ci fosse il rischio che se fosse successo qualcosa il procuratore del re avrebbe potuto incolpare il medico. Ha avuto ragione mio nonno”.