MARILENA CHITI
Cronaca

Prato saluta il vescovo Franco. "Aprire le chiese non basta, andare dove sta la gente"

Oggi in Cattedrale la messa di saluto: ‘Arrivai qui in piena crisi economica, ora la città impari a interpretare il nuovo'

Franco Agostinelli

Franco Agostinelli

Prato, 1 settembre 2019 - "Come sto? Ho il magone, sono giorni di grande emozione. Sette anni nella Chiesa di Prato e fra la gente possono sembrare pochi, ma sono stati davvero intensi. Mi sfilano davanti volti, nomi, storie. Sono venuto a Prato con spirito di servizio, la Chiesa aveva bisogno di me e io sono andato dove c’era questo bisogno. Non conoscevo la città, ma vi ho trovato, da subito, calore e tanta ricchezza di esperienze". Il pastore della Diocesi di Prato, Franco Agostinelli, come prevede il diritto canonico lascia per raggiunti limiti di età. Oggi alle 17 in Cattedrale la messa di saluto. Poi Agostinelli si trasferirà nella natia Arezzo nell’abitazione di famiglia dove vive la madre Lina di 99 anni.

Sabato 7 settembre la città accoglierà il nuovo vescovo, monsignor Giovanni Nerbini. Alle 17 in piazza santa Maria delle Carceri incontro con la Pastorale giovanile e saluto del sindaco Matteo Biffoni. Il vescovo nella basilica delle Carceri renderà omaggio a Maria tra i malati e i rappresentanti delle comunità straniere. Alle 18 in piazza Duomo, la prima parte della messa sarà presieduta dall’arcivescovo di Firenze, cardinale Giuseppe Betori. Dopo il passaggio del bastone pastorale dal cardinale ad Agostinelli e da questi a Nerbini, sarà il nuovo vescovo a presiedere la messa solenne.

Da domani un po’ di riposo?

«No, c’è ancora tanto da fare. Con gioia starò vicino a mia madre, ma non potrei chiudermi in casa, sono preoccupato di non poter stare più tra la gente quanto lo vorrei. Sono correttore nazionale della Confederazione delle Misericordie d’Italia e voglio rafforzare ancora di più questo mio impegno. Sarò spesso a Firenze nella sede di via dello Steccuto. Le Misericordie sono una realtà vivace, con tante energie giovanili che vanno accompagnate nella loro formazione. Intendo proseguire nella via dell’ascolto, del dialogo e della partecipazione».

Stare tra la gente. Lo ripete spesso e fin da quando era un giovane parroco di 28 anni.

«E’ proprio in parrocchia che ho capito davvero le ragioni della mia scelta di essere sacerdote. Volevo stare in mezzo alla gente, condividere con le persone un cammino. Alla guida della parrocchia del Sacro Cuore e Santa Teresa Margherita Redi di piazza Giotto ad Arezzo formata da ben quindicimila persone ho trovato in tanti la volontà di formare una vera comunità. Questo abbiamo fatto, siamo stati insieme».

Come si fa a sviluppare il senso di comunità quando l’individualismo si è fatto più forte?

«La Chiesa è ‘uscita’, come dice papa Francesco. Non chiudersi, non alzare i muri. Non basta aprire le porte delle parrocchie per fare entrare la gente, sono i sacerdoti che devono andare fra la gente. Non possiamo accontentarci che le persone vengano in chiesa e preghino. Si deve andare dove la gente vive e lavora, tra chi a messa non viene mai. La Chiesa così come è organizzata rappresenta un mondo che non esiste più. Il mondo sta cambiando e noi dobbiamo esserci. Anche i vescovi emeriti, come sarò io, possono contribuire. Voglio formare una nostra associazione e chiedere al papa di incontrarci, almeno una volta l’anno».

Lei arrivò a Prato proprio quando la città era morsa dalla crisi economica e stava smarrendo la fiducia. ‘Dobbiamo esserci’, vuol dire anche occupandosi del bene comune?

«Quando arrivai a Prato in tanti mi dissero che era una fase difficile. Questo mi fu subito di sprone per conoscere, capire, pensare come aiutare la comunità pratese. Prato era messa alla prova nella sua capacità di risollevarsi. Chiesa e società dovevano collaborare».

Ci provò con la Pastorale sociale e del lavoro e l’Agenda di speranza. Incontri e lettere d’intenti assieme alle categorie economiche. Qualcosa si mise in moto, ma poi la macchina ha fatto fatica ad avanzare. Cosa non ha funzionato?

«La gente era smarrita. La forza del lavoro si era incrinata e per recuperare da un trauma così profondo ci vuole tempo. I padri sono stanchi e le giovani generazioni sono cresciute tra garanzie e sicurezze che non ci sono più. E’ difficile, quando si è più fragili, assumersi delle responsabilità».

Ci vogliono i giovani per ripensare e rilanciare la città?

«I giovani sono il futuro, lo si dice spesso, ma dobbiamo crederci profondamente. Gli anziani sono la memoria e l’esperienza, i giovani hanno vivacità e sono creativi. Ci sono professioni nuove, i percorsi lavorativi stanno cambiando e Prato sembra già interpretare il nuovo con tante piccole realtà produttive emergenti».

Allora quella Prato laboratorio di saperi e di energie che lei ci ha sempre raccontato, resiste?

«Ne sono convinto. Prato è un laboratorio di convivenza, laboriosità, solidarietà e sta vivendo la sua grande opportunità. Sta mettendosi alla prova anche in una grande esperienza di integrazione, di accoglienza e rispetto, ma mentre si guarda al nuovo, si deve anche tenere desta l’attenzione sull’etica del lavoro, sul lavoro degno».

Ha fatto dell’ascolto un segno forte del suo episcopato, ma le istituzioni l’hanno ascoltata?

«Devo dire che nelle parole del sindaco alla città ho ritrovato anche le mie parole, uno stesso linguaggio nel rivolgersi alla gente».