Documenti riemersi dal passato: "Mio padre internato dai nazisti. Vittima ’snobbata’ dalla Storia"

Il racconto di Micheloni e del padre Giuseppe: l’armistizio, la cattura come deportato politico, il ritorno a casa. Il noto commerciante di Avenza è nipote di un altro prigioniero, Gino Menconi: "Il suo fu un destino beffardo".

Documenti riemersi dal passato: "Mio padre internato dai nazisti. Vittima ’snobbata’ dalla Storia"

Documenti riemersi dal passato: "Mio padre internato dai nazisti. Vittima ’snobbata’ dalla Storia"

"Come ogni anno all’avvicinarsi del 25 aprile i paladini (a fasi alterne) della Costituzione spenderanno fiumi di parole su guerra e pace, partigiani, resistenza e antifascismo". Lo scrive Cesare Micheloni, ex consigliere provinciale e noto commerciante di Avenza, il cui padre venne deportato in un campo di concentramento. "Giusto celebrare chi si è sacrificato per la libertà, che sia partigiano, intellettuale o politico. Come altrettanto giusto sarebbe onorare anche i primi resistenti, ovvero gli ‘internati militari italiani’, i soldati italiani catturati dai tedeschi, che dopo la proclamazione dell’armistizio (8 settembre 1943), non vennero considerati prigionieri di guerra ma deportati politici. Una condizione che non garantiva le tutele della Convenzione di Ginevra, e le conseguenze furono per loro drammatiche. A questi resistenti sarebbe bastato giurare fedeltà alla Repubblica di Salò e a Hitler, ma non lo fecero".

"Tuttavia le istituzioni – prosegue –, la politica e i media hanno sempre mostrato verso queste persone un profondo disinteresse. A tal proposito alcuni giorni fa un amico, storico e studioso della resistenza locale, mi ha informato che l’archivio tedesco Bad Arolsen aveva finalmente digitalizzato i documenti dei prigionieri (militari e civili) della seconda guerra mondiale. Ho pensato che con un po’ di fortuna sarei riuscito a trovare informazioni riguardanti il periodo di detenzione di mio padre e di mio zio materno, entrambi internati dai nazisti nei campi di concentramento".

"E così è stato. I fascicoli dei miei familiari erano disponibili – prosegue Micheloni –. Mio padre, Giuseppe Micheloni nato a Carrara il 31/03/1924, arruolato in Marina, dopo l’armistizio nel 1943 non volle aderire alla Repubblica di Salò, fu così catturato dai nazisti e il 25 settembre del 1943 fu internato nel campo di Ratisbona e vi rimase fino alla chiusura, il 2 aprile del 1945. Dopo la guerra come tanti italiani in cerca di lavoro, dovette emigrare in Australia dove trovò lavoro come taglialegna per abbattere gli alberi di eucalipto, poi si trasferì in Belgio dove lavorò come minatore e infine in Svizzera come cameriere in un albergo di una località sciistica".

"Nei primi anni Sessanta – prosegue – fece ritorno in Italia e trovò impiego in un campeggio della Partaccia. Ricordo che politicamente simpatizzava per il partito comunista anche se mio nonno era anarchico (la mia famiglia materna era invece repubblicana). Mio padre morì di cancro ai polmoni nel 1981, quando io avevo solo 14 anni, mai a nessuno gli orrori da lui vissuti nel lager. E se mio padre riuscì a scampare al campo di concentramento, non altrettanta fortuna ebbe mio zio, Gino Menconi nato a Carrara il 20 ottobre del 1920, che dopo essere miracolosamente sopravvissuto alla campagna di Russia, sfollato a Forno fu fatto prigioniero dai nazisti e deportato in Germania in un campo di lavoro di Mittelbau-Dora (la fabbrica dei missili V2) a Nordhausen, dove il 4 aprile 1945 – conclude Micheloni –, a pochi giorni dalla fine della guerra, morì sotto un bombardamento degli alleati. Un destino beffardo e crudele, il medesimo che toccò al marito di mia zia materna, anch’esso militare e caduto di guerra. Entrambe le spoglie dei due giovani combattenti non fecero mai ritorno in Italia".