La giustizia perduta nell’attesa

Il caso Ciatti, l’Italia e la Spagna

La direttrice de La Nazione, Agnese Pini

La direttrice de La Nazione, Agnese Pini

Firenze, 5 giugno 2022 - E alla fine anche Niccolò Ciatti ha avuto giustizia. Rassoul Bissoultanov, che lo assassinò colpendolo con un calcio alla testa in una discoteca di Lloret de Mar, è stato condannato per omicidio volontario dal tribunale di Girona. Venerdì pomeriggio. Il processo era iniziato lunedì. Cinque giorni: ecco il tempo di un dibattimento e di una sentenza di primo grado, in Spagna. Ora, tra i tanti e controversi rivoli emotivi che ci lascia addosso questo epilogo per nulla scontato - commozione che non riesce a spegnere la desolazione e la rabbia per la vita di un giovane di Scandicci interrotta nell’insensata violenza di una notte - ce n’è uno forse meno bruciante e intenso, ma di sicuro altrettanto importante. Ed è proprio il fattore tempo.

Cinque giorni per leggere e per ascoltare una sentenza. Cinque giorni per un imputato che attende di conoscere il suo destino. Cinque giorni per una vittima che non c’è più, ma che a maggior ragione merita immenso rispetto. Cinque giorni per contenere il dolore di una famiglia che non troverà mai pace, che non potrà mai dirsi soddisfatta - "e di cosa dovrei essere soddisfatto?", ha detto venerdì sera il babbo di Niccolò Ciatti, con la tristezza insieme energica e dignitosa che non gli ha più abbandonato gli occhi - ma che certamente trova il conforto di una risposta. Una risposta alle domande che la morte di un figlio non potrà mai soddisfare del tutto, e che però è sempre meglio del logoramento dell’attesa. Quel purgatorio d’infinita pena che la giustizia italiana infligge coi suoi disumani tempi a vittime, carnefici e presunti tali. Trasformando il senso della giustizia - che dagli albori dell’uomo ha definito la nascita della civiltà - in un vuoto a perdere di scoramento e sfiducia. Nei processi, nelle istituzioni, nello Stato.

In Italia, dove la riforma Cartabia ha l’obiettivo di accorciare le calende greche dei nostri tribunali, passano ancora in media 1.600 giorni per una sentenza definitiva. Significa quattro anni e quattro mesi. Che diventano sei anni a Reggio Calabria, Napoli e Roma. È una giustizia perduta, dunque, la nostra. Perché condanna tutti alla punizione più insopportabile: l’incertezza dell’attesa. Che annichilisce il senso stesso della democrazia: la tutela della libertà e la dignità dell’individuo. Non accade così in nessun altro Paese concretamente democratico e moderno. Non è accaduto, per dire, neppure con un altro caso globalmente clamoroso arrivato a sentenza mercoledì, seguito con spasmodica e inevitabilmente voyeuristica attenzione dai media di mezzo mondo: parlo del processo per diffamazione Depp-Heard, in Virginia, che è durato sei settimane. E questo malgrado le folli pressioni di stampa e fan.

Invece anche oggi, in Italia, a una settimana dai referendum che parlano proprio di giustizia, la questione centrale del pachiderma irriformabile - il tempo, appunto - si annacqua ancora una volta dietro oscure contrapposizioni che muovono faide tra partiti e istituzioni, trasformando il mai risolto problema del nostro Paese nell’ennesima arena di scontro ideologico. Dunque, inutile.