Giacomo Puccini, tra Bergson e il "vincerò"

Il punto di vista di Alberto Veronesi, direttore musicale della Fondazione Festival Puccini di Torre del Lago

Alberto Veronesi

Alberto Veronesi

Firenze, 21 giugno 2020 - Vorrei prendere spunto dalla decisione del Festival Puccini, di cui mi onoro di essere direttore musicale, di effettuare una stagione, sebbene un po’ ridotta rispetto a quanto annunciato, per l’anno in corso, per criticare l’utilizzo del “nessun dorma” di Puccini come inno e colonna sonora di comizi o convention di carattere politico. Giacomo Puccini è un autore essenziale, centrale nella storia della cultura italiana ed europea, più di quanto non siano state altre pur grandi personalità artistiche italiane, e non può e non deve esserne fermata la celebrazione.

Giacomo Puccini era perfettamente coetaneo di Henry Bergson, e come dice il professor Riccardo Roni, massimo studioso del filosofo parigino, è possibile stabilire un parallelo tra il maestro e il grande filosofo. La bohème e «Materia e Memoria » di Bergson appaiono entrambi nel 1896. Entrambe le opere riscossero un immenso ed immediato successo. Entrambe le opere sono legate a Parigi, vuoi per l’ambientazione, vuoi per la pubblicazione. Una parola unisce il quadro poetico del Maestro e il percorso del pensiero del filosofo: «Verschwendung»,«dissipation», “Dispersion”.

Per Bergson, come per il contemporaneo Husserl, la natura della realtà, in polemica con il positivismo e il materialismo, é basata sul concetto di coscienza, che non può essere ridotta a realtà materiale e che costituisce il punto centrale di qualsiasi ricerca filosofica. Il concetto di coscienza si esprime nel contrasto tra la nozione di tempo della scienza, che é quantitativa, astratta, meccanica e geometrica, e la nozione di tempo della coscienza, che é qualitativa, soggettiva, psicologica, basata sul flusso e sull’amalgama degli stati d’animo, secondo cui alcuni momenti appaiono eterni, altri velocissimi.

Ma la coscienza, come la realtà é frutto di una evoluzione insensata, frutto dell’impulso alla vita, di una forza cieca e irrazionale che mobilita gigantesche masse di energia destinate al fallimento, e che arrivano al successo solo attraverso il caso. In questo senso Bergson contesta l’ottimismo della teoria dell’evoluzione di Darwin e afferma che l’evoluzione sia dominata dalla dissipazione, dalla dispersione di energia, dalla mancanza di progresso, dalla “Verschwendung” appunto , anche se immersa in un incessante e irresistibile movimento.

Bergson adotta quindi un suo personale nichilismo, diverso dal nichilismo attivo di Nietzsche ma anche diverso dalla idea di nichilismo passivo nel Cristianesimo. Potremmo dire un nichilismo assoluto, simile in tutto e per tutto a quello di un Kierkegaard, di un Schopenhauer, di un Heidegger. Puccini é tanto nichilista quanto Bergson, anche lui adotta un nichilismo assoluto. diverso da quello “eroico” di un D’Annunzio, con cui alla fine, non ha mai voluto associarsi. Il nichilismo di Puccini é ancora più completo di quello di Wagner che, almeno, nei suoi drammi, individuava un eroe positivo, un uomo del futuro, un uomo del riscatto, un superuomo.

La predilezione di Puccini per la realtà, per il racconto realistico, non é riverenza per l’imperante positivismo, come troppe volte é stato scritto, ma culto dell’esistenza. Una predilezione per l’esistenza che proviene da Feurbach , da Kierkegaard e non certo da Comte, Darwin, Mill o Spencer. I suoi eroi, pensiamo a una Tosca, una Mimi, una Ció Ció San, un Cavaradossi, un Rodolfo, ma anche una Angelica, una Liu, sono esseri umani “gettati nel mondo”, che “vivono per la morte”, nel senso che la loro esistenza é segnata dalla morte, morte di cui hanno paura, al contrario dei Sigfrido e Tristano wagneriani. Così come per Bergson e per Schopenhauer, per Wagner o per Kierkegaard il positivismo e la sua narrazione trionfalistica, anche per Puccini, é una menzogna: non vi é alcuno spazio per il progresso, non vi é alcuno spazio per la speranza, per l’ evoluzione, ma solo per una natura immensa e gigantesca che crea uno slancio vitale che porta “ casualmente “ alla vita, all’uomo, ma anche al suo contrario, alla sua distruzione, al suo crepuscolo.

L’opera Turandot segna, come in Bergson, la timida speranza, purtroppo non suffragata da certezza, di un auspicato “salto evolutivo” della specie umana che consenta una nuova Mistica fatta di Amore Universale, una nuova Mistica praticata attraverso il concetto di Intuizione, che unisca intelligenza ed istinto, una speranza di cambiamento nell’uomo che Bergson e Puccini maturano, parallelamente, in un mondo sempre più incline alla violenza e alla autodistruzione. Ma non c’è ottimismo, o peggio trionfalismo in Turandot, il canto di Calaf é solo la speranza di un cambiamento nel genere umano. Per Hans George Gadamer, il grande filosofo dell’ermeneutica, scomparso nel 2002, l’interpretazione di un’opera diventa parte dell’opera stessa, e tale interpretazione ha il potere di modificare l’interprete, di cambiarlo. Se le parole di Gadamer hanno un senso oggi dobbiamo ritenere che Puccini sia morto, perché un’interpretazione delle opere di Puccini in senso trionfalistico uccide la nozione che si ha di lui, e lo consegna a un “qualcos’altro”, che é il suo opposto. La musica del Maestro é dispersione, il suo suono é sempre agonia tra esserci e non esserci, é sempre intuizione, mai trionfalismo. Presto ci saranno nuove elezioni politiche: l’idea che qualcuno possa usare Puccini come é stato fatto nell’ultimo anno, per comunicare un “vincerò” politico, trionfalistico, potrà solo uccidere il Maestro un’altra volta. Risparmiatelo.