Olio ‘lampante’ spacciato per biologico

I controlli: non è commestibile. Indagini sul produttore

Nel mirino della procura la qualità dell'olio imbottigliato nei dintorni di Firenze

Nel mirino della procura la qualità dell'olio imbottigliato nei dintorni di Firenze

Firenze, 10 agosto 2016 - L’OLIO D’OLIVA, al termine della lavorazione, viene classificato in tre categorie merceologiche: il più pregiato, è l’extravergine caratterizzato da una percentuale di acidità inferiore allo 0.8%. Se invece questo tasso di acidità sale oltre il 2%, la qualità si abbassa e l’olio viene definito «lampante»: non è commestibile e per diventarlo ha bisogno quanto meno di un processo industriale. Che, nel caso della bottiglia sequestrata sugli scaffali di una nota catena di supermercati “bio” non aveva subìto. Era dunque olio lampante: non letale, certo, ma comunque non idoneo al consumo umano.

Da quel sequestro, operato a Milano, gli ispettori I.C.Q.R.F. (acronimo dell’Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari) sono arrivati ad un oleificio che ha sede nel Comune di Lastra a Signa, dove l’olio – prodotto con olive tunisine – era stato imbottigliato. La procura, nella persona del pubblico ministero Filippo Focardi, ha aperto un’inchiesta, ipotizzando i reati di frode nell’esercizio del commercio e vendita di prodotti con segni mendaci. Ciò che era riportato sull’etichetta, infatti, non corrispondeva, secondo le accuse, ai test effettuati dagli ispettori del Ministero delle politiche agricole.

Un’inchiesta dalla portata più ridotta, ma molto simile a quella già avviata sempre dal pm Focardi sul cosiddetto “extravergine tarocco” che riguarda produttori della zona di Tavarnelle Val di Pesa. L’indagine sta mettendo in luce un mondo quanto meno di “furbetti” sulla qualità dell’olio che viene imbottigliato. Ad esempio “tagliando” l’extravergine buono con olii di qualità inferiore, con il risultato che finisce sugli scaffali dei supermercati un prodotto che non corrisponde alla standard qualitativi (e di prezzo) richiesti. 

Tutti questi accertamenti sono figli di un più ampio filone d’inchiesta, cominciato a Torino, confluito in Toscana per il coinvolgimento dello stabilimento Carapelli. La procura torinese venne messa in moto da una segnalazione della rivista specializzata “Il Test”, che aveva dedicato all’argomento un articolo ben documentato. In base alla scarsità del raccolto 2014, la rivista aveva infatti verificato che 9 delle 20 bottiglie in vendita esaminate non rispettavano i parametri chimici richiesti per ottenere la definizione di «extravergine».