Il caso Moby Prince, ci sono voluti 31 anni per un pezzo di verità. Ma restano tanti dubbi

La commissione parlamentare ha chiuso i lavori con una certezza: nella tragica collisione vi furono anche responsabilità di altre navi. Tocca alla magistratura accertare condotte negligenti o depistaggi

Il traghetto Moby Prince dopo il disastro

Il traghetto Moby Prince dopo il disastro

Livorno, 17 settembre 2022 - Notiamo l’enfasi più che giustificata che ha accompagnato la presentazione della relazione finale della commissione parlamentare d’inchiesta sulla tragedia del Moby Prince che, lo ricordiamo, risale al 10 aprile del 1991, trentuno anni fa. Centoquaranta persone a bordo del traghetto morirono nel rogo che divampò dopo la collisione con la superpetroliera Agip Abruzzo, ancorata a poco più di due miglia e mezzo dal porto di Livorno. E ora dobbiamo riepilogare il punto della situazione. Siamo pienamente convinti che il risultato raggiunto dai politici sia molto buono. I parlamentari hanno accertato ciò che finora la magistratura non aveva chiarito.

Uno: non c’era esplosivo a bordo del Moby, al contrario di quanto affermato nella perizia effettuata a suo tempo. Due: c’era almeno una terza nave coinvolta nella dinamica della collisione. Esclusa del tutto l’ipotesi della nebbia: in quella notte di aprile nella rada di Livorno la visibilità era ottima. Trentuno anni ci sono voluti per definire i contorni di una parte della verità. Una parte, certo.

La commissione parlamentare presieduta da Andrea Romano (Pd) ha concluso che "la collisione è avvenuta all’interno dell’area di divieto di ancoraggio nella rada, a seguito di una turbativa esterna alla navigazione provocata da una terza nave che non è stato possibile identificare con certezza".

Riguardo a questa terza nave, la stessa commissione suggerisce due piste. Una conduce al “21 Oktobaar II“, ex peschereccio somalo finito a più riprese in tutte le più losche e più luride vicende internazionali di traffici d’armi e di rifiuti (compare anche nell’inchiesta sulla morte della giornalista Rai Ilaria Alpi, per esempio). La seconda pista, invece, è quella relativa alla presenza di una o più bettoline "che stavano effettuando bunkeraggio clandestino". Per i non addetti ai lavori, il “bunkeraggio“ è il termine con il quale si indica il rifornimento di carburante da un natante (una bettolina è una piccola nave cisterna) a un altro.

La commissione parlamentare è arrivata dunque a queste conclusioni. Che sono importantissime, sia chiaro, proprio perché finora nessuno le aveva mai messe nero su bianco. Spetta però alla magistratura stabilire se in questi trentuno anni vi siano state condotte negligenti o veri e propri depistaggi.

Ora ci chiediamo, semplicemente e brutalmente: perché finora la magistratura non aveva raggiunto questo risultato? E ci domandiamo, ancora: quanto altro tempo ci vorrà per portare alla luce gli altri pezzi di verità? Quanto tempo dovremo ancora aspettare perché il mosaico investigativo sulla più grande tragedia della marineria civile italiana dal dopoguerra a oggi venga ricomposto? Quanto tempo impiegherà il futuro Parlamento a istituire un’altra commissione d’inchiesta - la terza - su questa vicenda? Quanto tempo ci vorrà per dare giustizia a 140 persone morte bruciate e ai loro familiari che in questi anni hanno sempre lottato senza sosta per conoscere la verità?

La petroliera Agip Abruzzo si trovava in una posizione vietata, è un dato certo. Sopra e sotto il mare al largo di Livorno c’era un traffico spaventoso, quella sera, con navi militari straniere di ritorno dal Golfo Persico; altro dato certo anche questo. Terribile il “my day“ lanciato dal marconista del Moby: "Moby Prince, Moby Prince... Prendiamo fuoco! Prendiamo fuoco!". Poi il silenzio. Le fiamme. Un solo superstite. Trentuno anni per avere qualche risposta. Ripartiamo da qui, allora. E rifacciamolo presto, perché il peggior nemico della verità è l’oblio.