Diari di Pieve. Il genocidio in Ruanda e quel ragazzo che si salva nascosto dai cadaveri

Jean Paul Habimana racconta le stragi dei tutsi a colpi di machete. Poi la fuga in Italia dove diventa insegnante. Tra gli otto finalisti del Premio Pieve

Jean Paul Habimana

Jean Paul Habimana

Pieve Santo Stefano (Arezzo) 13 settembre 2020 - E’ stata una delle pagine di storia più drammatiche dei nostri tempi con il mondo che stava a guardare. Il diario del fiorentino Gaddo Flego, in Ruanda per Medici senza Frontiere che quella strage l’ha vista nel 1994  e raccontata ha vinto il Premio Pieve nel 2014. Torma all’Archivio dei diari la strage a colpi di machete di uomini, donne e bambini di etnia tutsi ma da un altro punto di vista, quello delle vittime. Lui è Jean Paul Habimana, oggi ha 36 anni, la storia inizia con la sua nascita nel  1984 e va avanti fino al 2014, la storia dell’ultimo genocidio, un milione di persone massacrate. A scatenare l’inferno è l’abbattimento dell’aereo in cui viaggiano i presidenti di Ruanda e Burundi, entrambi di etnia hutu il 6 aprile del 1994. Da quel giorno per il piccolo Jean Paul, nato tutsi, comincia la lotta per la sopravvivenza. “Fuggimmo lasciando il cibo ancora caldo nei piatti. Fu l’ultima volta che vidi mio padre. Avevo dieci anni e fino ad allora mi ero recato in parrocchia per assistere alla santa Messa o a servire messa come chierichetto; non avrei mai immaginato che un giorno ci sarei andato per trovarvi rifugio".  E i “nemici” Hutu è lì che vanno a cercarli, nella parrocchia di Shangi e  nel vicino convento delle suore Pénitentes, nella diocesi di Cyangugu. “Erano armati fino ai denti con fucili, granate, machete e legni chiodati. Resistemmo rispondendo a sassate. Il 29 aprile un gruppo arrivò sparando all’impazzata su tutto e su tutti. Dalla paura ci mettemmo a correre cercando di salvarci. Dopo pochi passi, travolto dalla folla in fuga, inciampai e mi ritrovai con la faccia a terra mentre sentivo cadere su di me i corpi dei fuggiaschi falciati da fucili e machete. Rimasi immobile, sotterrato dai cadaveri per un tempo che mi parve infinito”. E’ una strage, un inferno, corpi maciullati, sventrati, amputati ancora sanguinanti. Jean Paul  grazie all’aiuto di una Hutu dissidente, Maria, lascia la parrocchia, vede altre inaudite violenze, ma ritrova la madre e si rifugia nel campo profughi di Nyarushishi dove opera la Croce Rossa , ma ogni giorno è una sfida alla morte, mancano cibo e acqua, le malattie si diffondono, ma almeno lì i machete non arrivano. Però si sentono abbandonati e inermi, sembra che il mondo stia guardando da un’altra parte, ma non è così: “All’alba del 23 giugno i vicini ci svegliarono verso le 5,30 dicendo che stavamo per morire. Uscimmo dalla tenda di corsa e trovammo il campo circondato da persone armate fino ai denti”. E’ il terrore, ma sono la gendarmeria con le truppe francesi e internazionali. Stentano a credere che siano lì per proteggerli dai loro assassini. Per Jean Paul e la sua gente è la liberazione e l’inizio di una nuova vita, è il momento della  ricostruzione dalle macerie e delle ferite da rimarginare anche se lasceranno per sempre il segno negli occhi, nel corpo e nell’anima. Nel 1997 Habimana entra in seminario, si dedica allo studio, cerca la sua verità, cerca la strada per capire il  perché di un genocidio: “Ogni ruandese sia carnefice o sopravvissuto ha cercato e trovato un modo per uscire dal ricordo di quel periodo infernale”. Nel 2005, anche per tenere fede a una promessa fatta a Dio durante il genocidio, diventa prete e in quello  stesso anno viene in Italia, per proseguire gli studi di filosofia e teologia al seminario arcivescovile Pio XI di Reggio Calabria. Quattro anni dopo cambia ancora vita e lascia la strada del sacerdozio, vuole continuare a studiare, vuole laurearsi anche se le difficoltà sono tantissime. Le supera, resta in Italia e nel 2010 si laurea con il massimo dei voti in Scienze religiose. Comincia la sua carriera di professore, insegna in diverse scuole e istituti del Nord Italia e come in tutte le vite normali incontra anche l’amore e si crea una famiglia.  Si sposa e nascono due figli. Un’unione che diventa un simbolo, perché unisce due persine appartenenti a due etnie che la storia ho voluto nemiche, vittime e carnefici: “ Il 2 agosto sposai Marie Louise, nel 2014 nacque Samuel, due ruandesi, con un padre nato e cresciuto Tutsi e una madre nata e cresciuta Hutu. Siamo ruandesi e basta”.