Arezzo dopo la peste: ecco come ci siamo rialzati

Il libro di Alberto Luongo che racconta il dopo epidemia del 1300

Alberto Luongo

Alberto Luongo

Arezzo, 3 aprile 2020 - Si intitola' Una città dopo la peste. Impresa e mobilità sociale ad Arezzo nella seconda metà del Trecento» il libro di Alberto Luongo che analizza la situazione della città dopo la cosiddetta ‘Peste nera’. Arezzo, infatti, ha conservato un buon numero di registri notarili e commerciali risalenti alla seconda metà del Trecento, che consentono di conoscere la vita economica dei suoi abitanti. Da qui è partito Luongo per la sua indagine: «Lo scopo del libro è tentare di capire come gli aretini hanno saputo riorganizzarsi nei decenni successivi all’epidemia di peste del 1348. Ho tentato di arrivarci tramite l’analisi dei percorsi di mobilità sociale di mercanti, artigiani e imprenditori». Inevitabile cercare analogie con il presente: «Già all’epoca la quarantena e l’isolamento erano misure consigliate per frenare il contagio, anche se in un contesto scientifico in cui le idee di ‘periodo di incubazione’ o ‘portatore sano’ non esistevano. Altra misura consigliata, improponibile oggi, era la fuga dei sani. Anche all’epoca ci furono medici che persero la vita nel tentativo di assistere i malati e di capire come contrastare la malattia che si trovavano di fronte per la prima volta. La differenza più evidente, fortunatamente per noi, è la mortalità della malattia, che nell’Italia centrale giunse anche a dimezzare la popolazione di alcune città. Oggi il problema è che la maggior parte di noi è ferma, all’epoca il problema era ripartire con il 50% di persone in meno». Da quel periodo buio, la città venne fuori con grande dinamismo, conclude Luongo: «Dopo un ventennio di adattamento, iniziò una stagione molto dinamica relativa alla produzione e alla vendita dei tessuti di lana, attuata soprattutto presso il porto di Pisa. La domanda interna non era più quella di prima, ma le strutture produttive rimanevano le stesse, quindi i mercanti più dinamici si proiettarono in una dimensione regionale e, più indirettamente, internazionali. Uno di questi fu Baccio di Magio, i figli del quale costruirono per lui la cappella funeraria della chiesa di San Francesco in cui campeggiano le storie della Vera Croce di Piero della Francesca. Dal mio punto di vista gli affreschi sono un po’ figli della ripresa post-epidemia»