Le regole oltrevere

Il commento sul caso Vatileaks II

Ugo Ruffolo

Ugo Ruffolo

Roma, 25 novembre 2015 - Il diritto alla difesa, soprattutto penale, è fra i primi "diritti umani", nuova quanto pervasiva religione laica dell’Occidente. E dovrebbe poter essere esercitato anche mediante il ricorso ad avvocati stranieri, magari perché più estranei e meno influenzabili. Ricordate, in A Dry White Season (1989), Marlon Brando quale carismatico avvocato inglese piovuto a far esplodere il conformismo razzista di un tribunale del Sudafrica ai tempi iniqui e bui dell’apartheid?

È stupefacente e singolare, allora, che nei tempi chiari del ben più limpido ed equo Stato Vaticano, due intemerate principesse del Foro, Giulia Bongiorno e la mia amica Caterina Malavenda, rischino il divieto di difendere gli imputati di Vatileaks II perché non iscritte alla Rota Vaticana.

Certo, ogni ordinamento regolamenta le ammissioni di avvocati stranieri al proprio foro, anche se i tempi sono maturi perché convenzioni internazionali e organismi sovranazionali impongano che sia accordato all’imputato il diritto di scegliere un avvocato non nazionale. Il problema è drammatico nei paesi a rischio, e magari in Stati canaglia, mentre diventa quasi di mero costume se riferito al garantista Stato Vaticano di oggi (ieri, un po’ meno). Dove, se processato, anche il non credente può sentirsi tutelato quanto in Italia, e ben più che in tanti altri paesi.

Perché, allora, scivola su questa buccia di banana uno Stato tanto autorevole e affidabile quanto territorialmente microscopico, e dunque con avvocati rotali (molti italiani) non adeguatamente numerosi, spesso non penalisti, e che magari qualcuno potrebbe considerare (a torto) troppo contigui o embedded? Il Vaticano, dunque, proprio perché Stato tanto limpido quanto confessionale (raro compromesso!) avrebbe, oltre che il dovere, seria convenienza ad adottare maglie più larghe e meno discrezionali per l’ingresso ad avvocati esterni, evitando, così, anche facili accuse di bavaglio.

Quanto al caso concreto, il criterio col quale esaminarlo è: il giornalista non ha l’impunità nel procurarsi le notizie ma, anche quando captate illecitamente da terzi (si pensi alle intercettazioni) ha il diritto di pubblicarle (e di coprire la fonte) se non ha concorso nell’illecito compiuto da chi le ha riferite. Un conto è violare un archivio segreto, un altro pubblicare documenti divulgati da colui che li ha hackerati.