"Così i direttori ingannarono i clienti": truffa Etruria, ecco le accuse dei Pm

Secondo i Pm convocati i clienti i cui investimenti erano in scadenza per proporgli bond altrettanto redditizi. "Ma l’investimento era ad alto tasso di rischio»

Manifestazione risparmiatori Banca Etruria

Manifestazione risparmiatori Banca Etruria

Arezzo, 16 novembre 2016 - Hanno taciuto ai risparmiatori che si erano loro affidati la reale pericolosità delle obbligazioni subordinate di Banca Etruria e anche la vera situazione della banca stessa, che già al momento della sottoscrizione dei titoli era molto critica. Non solo: hanno alterato i Mifid (cioè i moduli che ciascun investitore deve riempire per indicare il proprio profilo di rischio), contravvenendo ai desideri del cliente sulla percentuale di risparmi da collocare in titoli e su quanto di questi ultimi dovessero essere destinati a subordinate Bpel.

Eccole le accuse che la procura rivolge ai direttori di banca che hanno ricevuto l’avviso di chiusura indagini per truffa tra maggio e e l’inizio dell’estate, inchiesta improvvisamente riportata alla ribalta domenica da alcune indiscrezioni di stampa. Lì si parlava di trenta responsabili di filiale sotto accusa e del fatto che per loro i Pm del pool diretto dal procuratore capo Roberto Rossi si apprestasse a chiedere il rinvio a gudizio.

In realtà, le cose non stanno esattamente così. Intanto perchè gli indagati sono molti meno, fra i quindici e i venti. E poi la procura non ha ancora intenzione di mandarli a processo: prima si spera di arrivare al livello superiore, già parzialmente sfiorato con gli avvisi di garanzia a due dirigenti della sede centrale, quello nel quale sarebbero state prese le decisioni più scottanti: piazzare le subordinate nel modo più ampio possibile, anche al pubblico indistinto, perchè era diventato uno dei pochi modi di ripatrimonializzare una banca già con l’acqua (e i conti in rosso) alla gola.

Il tutto intanto si è tradotto nella formulazione del capo di imputazione contenuto negli avvisi di chiusura indagine, di cuiLa Nazione ha avuto accesso a un modello quasi standard. Quello appunto riassunto all’inizio. Non basterebbe tuttavia a configurare il reato di truffa, che richiede tre presupposti: gli «artifizi e raggiri» dei comportamenti riportati sopra, l’ingiusto danno nei confronti della vittima (ed è evidente nel fatto che le obbligazioni siano poi state azzerate, con consistenti perdite patrimoniali) e l’ingiusto profitto dei protagonisti.

Che i Pm individuano per Etruria nel collocamento di titoli che diedero respiro agli esangui parametri finanziari dell’istituto e per i direttori «nel favorevole effetto sulla valutazione professionale del funzionario da parte degli organi superiori». I responsabili di filiale, dunque, avrebbero avuto un vantaggio di carriera.

Per questo, i direttori, nella ricostruzione dei Pm, avrebbero convocato i clienti i cui investimenti (nel caso esaminato in titoli di stato) erano in scadenza, prospettando loro la possibilità di ricollocarli in bond altrettanto sicuri e redditizi. Invece (le parole sono quelle degli avvisi di chiusura indagine) «l’investimento proposto era in realtà una speculazione ad alto tasso di rischio», sia per la natura intrinseca delle subordinate che per le condizioni di Etruria.

E poi «l’intensa attività di convincimento verbale e il rapporto fiduciario privarono di ogni reale efficacia informativa i prospetti sottoscritti», nei quali in effetti era messa nero su bianco la natura delle obbligazioni e i loro pericoli. Ma, «senza la mediazione di una persona esperta», il cliente non aveva la possibilità di rendersene conto e finiva con una firma «senza cognizione e senza reale lettura, in ragione delle rassicurazioni del funzionario».

E’ un po’ la chiave per far comprendere la diversa lettura che dell’azione dei direttori danno altre procure. Per quella di Isernia, di cui abbiamo scritto qualche giorno fa, all’investitore avrebbe dovuto bastare quanto scritto nei prospetti e il resto era a suo rischio e pericolo, per i Pm aretini invece c’è un di più dei direttori che li rende compartecipi della truffa. I processi diranno chi ha ragione.

di Salvatore Mannino