Carlo Levi dal Cristo di Eboli a Vallucciole: così lo scrittore raccontò la strage

Le bambine massacrate, i tre ciechi costretti a portarne i resti e poi uccisi: i dettagli dell'orrore nello stile asciutto dell'autore riscoperti in un libro di Nicola Coccia

Un particolare della copertina del libro di Nicola Coccia su Carlo Levi

Un particolare della copertina del libro di Nicola Coccia su Carlo Levi

Arezzo, 9 aprile 2017 - Delle case di Vallucciole, Civitella, Castelnuovo, San Polo e dei tanti altri luoghi dell’Aretino in cui la ferocia tedesca seminò morte nelle stragi, grandi e piccole, del 1944 non è rimasto che qualche brandello di muro. Ma per completare la citazione di Ungaretti, come a San Martino del Carso durante la Grande Guerra, almeno nei cuori della letteratura nazionale nessuna croce manca.

Eh sì, i massacri dell’esercito di Hitler una cosa in comune l’hanno, oltre alle vittime (innocenti, di una vera e propria guerra contro i civili) e spesso agli autori (i soldati altamente fanatizzati della divisione Hermann Goering): l’interesse suscitato fra gli scrittori che quella scia di sangue l’hanno poi ri-raccontata nelle loro pagine. Per Civitella, ad esempio, c’erano gli scritti di Romano Bilenchi e Jean Paul Sartre, per Vallucciole si riscopre adesso la testimonianza lasciata da un altro gigante della cultura italiana del ‘900, Carlo Levi, l’autore di “Cristo si è fermato ad Eboli”.

L’ha ritrovata per la precisione Nicola Coccia, una vita da cronista de La Nazione, nel libro che ha dedicato a ricostruire le peripezie di Levi, dal confino di Aliano (la Gagliano del “Cristo”) alla liberazione di Firenze, la città, capitale e crocevia della cultura italiana in quegli anni terribili, in cui Levi trascorse, nascondendosi ai tedeschi e ai fascisti, i dieci mesi della guerra civile: “L’arse argille consolerai”, in libreria ormai da tempo e che la prossima settimana sarà presentato a Stia, il comune di Vallucciole.

Del borgo arrampicato sulla strada del passo dei Crocemori, come è noto, sono rimaste solo rovine. Morirono in 108 il 13 aprile 1944, tra le case del paese omonimo, quelle di Serelli e di Mulino di Bucchio. I pochi che si salvarono dalla strage non sono mai tornati. Sei ufficiali e soldati della Hermann Goering sono stati condannati all’ergastolo nel processo concluso davanti al tribunale militare di Verona il 6 luglio 2011, a suggello di un dopoguerra infinito di memoria negata e di memoria divisa, anche se nessuno ha mai scontato un giorno di carcere per quella sentenza: la Germania non ha concesso l’estradizione dei sopravvissuti, vecchietti terribili che ancora prima del processo si mettevano in allarmel’uno con l’altro: “Neghiamo tutto, lì abbiamo fatto autentiche porcherie”.

Ma tutto questo Carlo Levi non poteva saperlo. Nè quando venne a conoscenza della strage, come Coccia riscopre, ancora nella primavera dell’occupazione tedesca e della Repubblica di Salò, nè quando ne scrisse dieci anni dopo, nel 1954, in un articolo per il settimanale “Il Contemporaneo”, vicino al partito comunista. E lo scrittore è morto troppo presto, nel 1975, per vedere quel barlume di giustizia aperto dal processo del 2011, grazie alla tenacia del procuratore militare Marco De Paolis, lo stesso degli ergastoli per Civitella e per Falzano, la strage nella montagna cortonese.

Non poteva sapere, dunque, che, secondo la giustizia militare italiana, Vallucciole fece parte di un unico disegno strategico di “ripulitura” del crinale appenninico tosco-emiliano, partito da Monchio, nel modenese, in marzo, e finito appunto nell’alto Casentino fra il 13 e il 15 aprile, 73 anni fa proprio in questi stessi giorni.

In quell'epoca Carlo Levi viveva braccato a Firenze, fra un appartamento di piazza Pitti, davanti al palazzo omonimo, e Villa Nerini, sui colli intorno alla città. Qui, appunto, seppe della strage dalla governante del padrone di casa, innamorato del Casentino, che la collaboratrice domestica l’aveva scelta proprio originaria di Vallucciole. Lo racconterà nell’articolo per il “Contemporaneo”: a portare la notizia della strage in villa fu uno dei fuggiaschi, Giovanni Bardi.

A seguire, la narrazione degli eventi, che parte dall’antefatto, l’uccisione ad opera dei partigiani di due sottufficiali della Goering in avanscoperta prima del rastrellamento. Levi la colloca nel sabato di Pasqua dell’8 aprile, anche se in realtà avvenne l’11 e contribuì sicuramente ad inasprire la rappresaglia.

Che lo scrittore descrive nitidamente: i soldati tedeschi che irrompono all’alba, le donne e i bambini massacrati subito, gli uomini costretti a trasportare armi e munizioni sul crinale della montagna, prima di essere a loro volta uccisi. I particolari contribuiscono a dare il senso dell’orrore: le donne del Masini “erano state massacrate e la bambina piccola, che aveva un anno, l’avevano tagliata a pezzi così per divertirsi e i pezzi li avevano messi in una scatola di cartone, di quelle per le scarpe...”.

E ancora: “Gli Orai, tre fratelli tutti ciechi dalla nascita, provarono a portare le cassette sul sentiero ma come potevano farlo? Lo dissero che erano ciechi, ma i tedeschi li spingevano a randellate. E quando prima uno, poi l’altro, poi il terzo caddero con le loro cassette, gli spararono nella testa e li lasciarono lì”. Parole e descrizioni crude, come nel “Cristo”. Servono anch’esse a dare corpo alla memoria.