Sandro Veronesi, e il "penso dove non sono" di Lacan

Il Colibrí di Sandro Veronesi ha vinto il Premio Strega

Alberto Veronesi

Alberto Veronesi

Firenze, 12 luglio 2020 -  Il poeta é un creatore di favole, e non di versi, diceva Aristotele. Quindi voglio soffermarmi sulla favola che Veronesi racconta. Cominciamo col dire che si tratta di un grande romanzo, ricco, un grande affresco storico esistenziale tra il 1970 e il 2030. Il protagonista, Marco Carrera, nato a Roma nel ‘59, medico oftalmico, é figlio di Probo e Letizia, fratello di Irene e Giacomo, marito di Marina, padre di Adele, nonno di Miraijin. Amante platonico di Luisa, amico di Duccio Chilleri. Dentro questo perimetro di mura domestiche si svolge una vita; ma la vita di Marco é funestata dalla tragedia. Innanzitutto l’amore dei genitori non é reale, Letizia disprezza Probo, lo tradisce, e questa famiglia senza amore crea le condizioni per una instabilità psicologica di Irene che si suiciderá quando Marco avrà 22 anni. Questo suicidio segna la famiglia, Marco accusa Giacomo di non aver accudito Irene, che tutti sapevano avere pulsioni suicide, il giorno della tragedia; e rompono per sempre ogni comunicazione; il padre Probo entra in una paralisi che sfocierá vent’anni dopo in tumore, e contemporaneamente, di tumore, muore anche Letizia.

Marco continua a nutrire un amore platonico per Luisa, che sarà, per quanto platonico, motivo di separazione dalla moglie Marina, che di fatto azzererà la propria vita in una continua “Gioia del vivere vero, del rischio, della dissoluzione, fuori dalle maledette bolle delle menzogne nelle quali viveva”. Marco avrà in affido la figlia Adele, cui non impedisce di frequentare una compagnia di giovani appassionati di sport estremi. Adele, quindi, morirà in un incidente sulle Alpi Apuane a 22 anni, due mesi dopo aver messo al mondo la nipotina di Marco, Miraiijin, e senza avergli mai rivelato chi fosse il padre. Oltre a tutto ciò il protagonista a vent’anni scampa ad un disastro aereo grazie alle paure ossessive per il volo del suo amico Duccio Chilleri, che preso da raptus dopo aver gridato ai passeggeri “morirete tutti e volete uccidere anche me”, vengono rispediti dall’equipaggio a terra. Dopo la tragedia aerea e lo schianto dell’aereo, Marco diffonde la notizia della profezia del suo amico che lo rende per tutti, da quel momento, Innominabile e inavvicinabile, distruggendogli la vita. Questo senso di tragedia famigliare e di decomposizione dei rapporti, degli amori, delle amicizie, si sublimerà nella speranza per la nipotina Miraijin, che avrebbe dovuto essere l’Uomo Nuovo, colei che avrebbe cambiato il corso del mondo.

Tutto il romanzo ha una chiave, ovviamente, in Jacques Lacan: ogni domanda “è domanda di una presenza e di una assenza.  È prima di tutto una domanda d’amore. La domanda è un appello rivolto all’Altro”. In questo senso le domande d’amore di tutti i protagonisti sono deluse, si vive in un mondo senza amore, e questa é la radice della tragedia di Marco e della sua famiglia. La difficoltà, la incapacità, la avarizia, nel dare e offrire amore é la chiave della tragedia che incombe sul protagonista, nel senso che tutti i protagonisti crescono e vivono senza madre, a partire da Adele, sua figlia, che sceglie di stare con il padre, o Irene stessa, la sorella, che sentiva, con maggiore sensibilità dei fratelli, la mancanza di amore della madre, e per finire con Miraijin, che deve crescere, a due mesi di vita, senza madre. Marco sarà colui che, conscio della tragedia, riverserà sulla nipotina tutto l’amore del mondo, sapendo che in lei si realizzerà quell’Uomo Nuovo (ancora una donna che é vista come un uomo) che avrebbe dovuto attuare quel salto evolutivo verso una specie umana più buona, più comprensiva, meno egoista, più orientata alla cultura, all’equilibrio, alla dolcezza, all’amore. E in effetti, il romanzo, rivolto ad un futuro prossimo, fino alla morte assistita di Marco, nel 2030 ci descrive una Miraijin, che superdotata intellettualmente, crea un canale You Tube da milioni di follower che imparano, attraverso il suo esempio, a creare e coltivare un mondo migliore, un mondo vero, in opposizione al mondo falso della libertà sfrenata, che oggi, per Veronesi, diventa “libertà di non vaccinare, di non curare, di non credere ai fatti, di creare notizie false, di inquinare, di sparare addosso a chi entra in casa, di lasciar affogare i naufraghi, di odiare le altre religioni, di cacciare le specie protette, di essere razzisti, ignoranti, omofobi, antisemiti, islamofobi, negazionismi, fascisti, nazisti, di perseguire solo il proprio egoismo”.

Potremmo però leggere il romanzo anche con un’altra chiave. Marco Carrera é quello che Kierkegaard chiamava il tipo dell’ “Ehemann”, la scelta esistenziale etica, del “marito”, di colui che si carica addosso le responsabilità e le colpe di un nucleo familiare, di una famiglia allargata, di una società intera. Egli ama una donna diversa da quella che ha sposato, ma non compirà con lei mai qualsiasi atto, financo un bacio, che potesse essere un tradimento della moglie. Responsabilità totale, anche nel rinunciare alla carriera, per tenere insieme i fili, sempre più spezzati, della famiglia. Ma per Kierkegaard la svolta finale delle scelte esistenziali doveva essere il salto verso la religione, verso la fede. In questo senso il finale del libro introduce un tema religioso, il futuro di redenzione attraverso i nostri figli, che dovrebbero risolvere i disastri che stiamo creando, che abbiamo creato noi. Ma i nostri figli non possono essere l’oggetto di una proiezione di redenzione nel futuro, perché se così fosse non li caricheremmo di debiti finanziari, di debiti ambientali, di debiti culturali così devastanti come stiamo facendo attualmente. L’idea di trasferire a generazioni future la redenzione del presente é un’idea profondamente sbagliata, e qui svolgo la prima critica al mio omonimo scrittore. I nostri figli hanno bisogno del nostro amore, non dei nostri sogni. Per migliorare il presente dobbiamo lavorare, noi stessi, ogni giorno, praticando un sentimento che manca totalmente a Marco: il sentimento, ed é ancora Kierkegaard, dell’angoscia. “La fede è paradosso e angoscia di fronte a Dio come possibilità infinita”. E qui sta la mia seconda critica a Marco e , indirettamente, a Veronesi. Se Marco vuole cambiare il mondo, se veramente non sopporta il mondo così come é, deve sentire su di se la infinita possibilità delle scelte e sentire la angoscia che comporta il praticare delle scelte.

Marco deve praticare delle scelte, é condannato a doverle praticare; se aveva deciso di tutelare Irene dal suicidio avrebbe dovuto non staccarsi da lei, se ha sposato Marina doveva scegliere risolutamente di non vedere più Luisa, nemmeno nella castitá, se veramente doveva cambiare il mondo, non doveva buttarsi nel mondo del gioco d’azzardo, se davvero Duccio era suo amico avrebbe dovuto preservarlo dalla rovina, e via all’infinito. Kierkegaard:”L’angoscia è la possibilità della libertà; soltanto quest’angoscia ha, mediante la fede, la capacità di formare assolutamente, in quanto distrugge tutte le finitezze, scoprendo tutte le loro illusioni.” Ma non solo Kierkegaard avrebbe criticato Marco, probabilmente anche Heidegger: “L’esistenza anonima e banale non ha il coraggio dell’angoscia davanti alla morte”. Per Heidegger é necessario sentire l’angoscia dell’essere-per-la-morte. L’esistenza autentica significa l’accettazione della propria finitezza. Attraverso questa accettazione Marco avrebbe potuto lasciare i sogni e dedicarsi a cambiare la realtà. Heidegger avrebbe inoltre rincarato la dose dicendo che le contraddizioni in cui si dibatte la famiglia di Marco , derivano dall’oblio dell’essere nell’Occidente, oblio beninteso cominciato con Platone: l’uomo, obliando l’essere, si è lasciato travolgere dalle cose, rendendo la realtà puro oggetto da dominare. Questo atteggiamento, oggi, arriva a minacciare le basi della vita stessa, é una fede, una fede nella tecnica che in realtà travolge l’uomo. Il povero Marco, invece di farsi travolgere dalle cose, in una esistenza inautentica, avrebbe dovuto sentire la angoscia dell’essere per la morte, attraverso questa angoscia cercare di ritornare all’essere, nel giusto distacco dalle cose, ma continuando ad avere cura delle persone e delle cose attorno a se, sviluppando quella idea di progetto che é il cambiamento, e che, sempre per Heidegger, unisce il passato, il presente ed il futuro. Per ritornare a Lacan, l’esistenza inautentica di Marco, é frutto della rimozione che impedisce la comprensione finita di se stessi, ma la sua frase vale anche per il vivere inattuale che non comprende il valore dell’essere per la morte: “io penso dove non sono, sono dove non penso”.

 

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