Carcere e sovraffollamento, il covid fa paura: "Tanti focolai, i nodi vengono al pettine"

Il panorama del contagio negli istituti penitenziari è allarmante. Le parole di Sofia Ciuffoletti, direttrice dell'Altro Diritto

Svolta in South Carolina

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Roma, 31 marzo 2021 - Un (nuovo) focolaio a Rebibbia, Roma, con oltre 40 detenute e 4 agenti di polizia penitenziaria positive Covid-19. Focolai nelle carceri a Saluzzo (27 detenuti, raddoppiati in 48 ore, 3 agenti e un impiegato) e Cuneo (11 detenuti e 6 agenti). Focolaio nel reparto 41 bis del carcere di Parma, con 11 detenuti, 30 agenti del gruppo operativo mobile e quattro agenti di polizia penitenziaria contagiati. A Melfi, altro focolaio: 36 positivi. E poi la Toscana: 63 positivi a Volterra su circa 170 detenuti totali.

Sono solo alcuni dei tanti casi in giro per l’Italia. Con buona pace di quelli che dicevano, qualche mese fa, che in carcere si sta meglio che fuori. Ma che cosa sta succedendo nelle carceri italiane? Quello che era ampiamente previsto.

La deflazione del tasso di sovraffollamento non è stata sufficiente a garantire un adeguato distanziamento sociale, quello che a chi sta fuori è imposto, e la campagna di vaccinazione procede lentamente. “Le notizie dei focolai che sono giunte alla cronaca, e che probabilmente nascondono altri cluster meno famosi, inducono a una riflessione”, dice alla Nazione Sofia Ciuffoletti, filosofa del diritto e direttrice dell’Altro diritto.

“L’andamento del contagio di un virus, di un’epidemia dunque o addirittura di una pandemia, all’interno del contesto di istituzione totale qual è un carcere avviene per l’appunto per cluster, per focolai. Nelle carceri il contagio si propaga all’interno di focolai piccoli e medi. L’ipotesi è che ciò che si è verificato nelle Rsa nella prima ondata oggi si stia verificando nelle istituzioni penitenziarie, la cui unica risposta efficace nel fronteggiare l’emergenza sanitaria per ora è stata la chiusura ermetica a ogni attività esterna. Le carceri sono già un luogo chiuso di per sé, ma a causa della pandemia lo sono diventate ancora di più. È una misura che non può reggere un intero anno. L’altra risposta efficace sarebbe stata - e dico sarebbe perché è rimasta una strada inesplorata - la riduzione drastica del sovraffollamento”.

Le misure prese dopo l’inizio dell’emergenza sanitaria, a legislazione invariata, “hanno inciso poco sul sovraffollamento mentre ha inciso molto di più l’impegno della magistratura di sorveglianza che, nonostante il clamore mediatico, ha ridotto la popolazione carceraria secondo i requisiti di legge già presenti prima dell’inizio della pandemia. In Italia il sovraffollamento è endemico, non è risolto da decenni. Si è fatto in un anno quello che non si è fatto in decenni. Ora però lo zoccolo duro dei detenuti che avrebbe già potuto uscire perché ne aveva i requisiti, a prescindere dall’emergenza sanitaria, si è esaurito. Nelle carceri ci sono sempre 54 mila persone a fronte di una capienza massima regolamentare di 47 mila posti. Nelle carceri italiane ci sono 7 mila detenuti in più”.

E di solito, spiega Ciuffoletti la maggior parte degli istituti medi e grandi sono sovraffollati. Pensiamo al caso della Toscana, Regione che Ciuffoletti conosce bene essendo anche Garante dei diritti delle persone private della libertà personali a San Gimignano. Sollicciano ha una capienza regolamentare di 490 posti a fronte di circa 670 persone detenute attualmente. 

In più c’è stato un problema con la campagna di vaccinazione. “C’è stato un tira e molla morale, un ricatto emotivo nei confronti dei detenuti: c’è l’idea che chi è dentro un carcere non possa essere trattato alla stessa maniera di chi è fuori. Peraltro, nelle carceri ci son in larga parte persone non condannate in via definitiva, con buona pace del principio della presunzione di innocenza, e che sono in attesa di condanna definitiva. Questo ricatto morale, questo tira e molla sui diritti, induce a pensare che ci sia un livello minore di tutela sanitaria nei confronti di chi è in carcere. È tempo di dire che così non è e che la tutela del diritto alla salute delle persone in carcere è rilevante tanto quella delle persone fuori”.

A San Gimignano, dove Ciuffoletti è Garante e dove ci sono 300 detenuti, la campagna vaccinale è stata fatta efficacemente. Lì sono stati vaccinati subito operatori e operatrici. Ma altrove procede a rilento. A Sollicciano non sono stati vaccinati né operatori né volontari delle associazioni come quella di Altro diritto. Dopo lo stop del vaccino AstraZeneca, che nel frattempo ha cambiato nome, si è diffusa la paura in carcere.

Ciuffoletti l’ha verificato di persona. “Se già noi abbiamo paura, con tutte le possibilità di informarci che abbiamo, anche grazie a fonti dirette, in carcere, dove c’è accesso solo a tv e alcuni giornali, ma non c’è Internet, le persone scontano un deficit informatico e conoscitivo. Anche quello diretto. Io posso chiamare mio zio medico, la mia migliore amica medico, o il mio medico di famiglia. Ma questo meccanismo in carcere non funziona e dopo il caso di Astrazeneca i detenuti a San Gimignano erano tutti spaventati. La situazione  si è sanata in larghissima parte perché l’area sanitaria e la direzione sono andate a parlare e a informare le persone che non erano convinte, dando l’esempio e vaccinandosi loro per primi davanti ai detenuti. Le campagne vaccinali vanno seguite bene, dando informazioni alle persone che hanno legittimamente dei dubbi, specialmente in carcere. Quando manca la cura, come sanno gli agronomi, si muore. Anche perché stare male in carcere è diverso dallo stare male fuori”.