CLAUDIO
Cronaca

La storia della diocesi e dei suoi 24 vescovi. Tra San Donato e la Madonna del Conforto

Un volume ripercorre la storia dei presuli aretini dal patrono fino ai giorni nostri. Passando per il miracolo di via Vecchia

La storia della diocesi e dei suoi 24 vescovi. Tra San Donato e la Madonna del Conforto

La storia della diocesi e dei suoi 24 vescovi. Tra San Donato e la Madonna del Conforto

Santori

Sono usciti gli atti del ciclo di conferenze sui vescovi della diocesi di Arezzo organizzato dalla Società Storica Aretina e curato da Luca Berti: un volume di oltre 550 pagine che illumina a giorno la vita e l’opera di ventiquattro vescovi che hanno inciso profondamente nel tessuto sociale, culturale e spirituale della città e viene di fatto a colmare una lacuna, sostituendo il saggio di Angelo Tafi, pubblicato dall’editore Calosci di Cortona nel 1986 ed ormai introvabile.

Ventiquattro i vescovi trattati e quattordici gli autori, tutti conoscitori profondi della storia di Arezzo: l’Età antica è coperta dal solo San Donato (il cui ritratto a olio, di anonimo del XVIII secolo, conservato nel Palazzo Vescovile, campeggia in copertina), mentre sono ben illustrate con i personaggi più rappresentativi l’Età di mezzo, quella moderna e quella contemporanea. Impossibile render conto in poche righe della vastità di un lavoro che arricchisce enormemente non solo, il che è ovvio, la storia della diocesi, ma soprattutto la storia della città.

Luca Berti per esempio prende spunto dall’opera di Giovanni II Albergotti per ripercorrere (alla luce di una ventina di documenti editi, ma dispersi fra l’Archivio Diocesano, gli Archivi di Stato di Arezzo, Firenze e Siena e le fiorentine biblioteche Marucelliana e Riccardiana) la complessa posizione di Arezzo fra il papato e Firenze.

Il lettore troverà un’utile sintesi del colpo di mano tentato dall’Albergotti il 28 agosto del 1377 per portare la città nell’orbita del papato con la speranza di ottenere un cardinalato: complotto fallito per l’intervento del “popolo” e concluso con la cattura, la temporanea detenzione e successiva espulsione manu armata del vescovo che finì poi, tuttavia, col tornare ad allinearsi con Firenze.

E del difficile rapporto con Firenze si occupa Gaetano Greco illustrando le difficoltà incontrate dal vescovo Usimbardi, considerato “intimo del Granduca” e perciò titolare, agli occhi della nobiltà aretina, di due poteri lontani e sgraditi: quello mediceo e quello ecclesiastico romano.

Tanto più che l’Usimbardi promosse con forza l’adeguamento alle norme del Concilio di Trento, molto disattese dal clero aretino che “viveva dissolutamente, et la notte andavano i preti per la città et altri luoghi con archibugi corti e per la maggior parte erano concubinarii, rissosi et giocatori”, come ebbe a scrivere Angelo Peruzzi, vescovo di Sarsina.

Fra i saggi più interessanti spiccano quelli di Licciardello, Delumeau e Scharf che portano nuove tessere al mosaico della storia aretina del Medio Evo e quello di Franco Cristelli sul Marcacci che aderì alla politica religiosa del Granduca laddove questi dettava norme “moderne” e pienamente condivisibili, come la proibizione di seppellire i morti dentro le chiese; la creazione dei cimiteri extraurbani allora chiamati “camposanti”, termine talvolta in uso ancora oggi; la riforma dei conventi e la riforma degli studi, mediando fra il rispetto per l’autorità del papa e quella dei vescovi e soprattutto mediando fra la minoranza giansenista e la maggioranza antileopoldina. E naturalmente sono del massimo interesse le pagine che sintetizzano magistralmente la complessa questione dell’episodio della madonna del Conforto.

A partire dal 1° febbraio 1796 Arezzo fu colpita da una serie di scosse di terremoto che ebbero un picco devastante nella notte fra il 4 e il 5, con varie scosse di assestamento nei giorni successivi, tanto è vero che il Marcacci promosse cerimonie religiose e processioni con esposizione di reliquie di santi, fra cui quelle di San Donato.

Le cerimonie andarono avanti fino al 15, giorno in cui, com’è noto, alle 5,30 del pomeriggio, la “venditora” di vino della cantina dei monaci Camaldolesi, Domitilla Bianchini, dette l’incarico a tale Antonio Tanti di accendere il lume davanti alla terracotta policroma raffigurante la Madonna di Provenzano, che era affissa ad una parete e poi si mise a “barzellettare” e a ridere con i presenti. Il Tanti eseguì l’ordine e disse “diciamo le litanie”. Non appena cominciarono a pregare videro l’immagine da “affumicata e annerita” farsi d’un tratto “candida e pulita, con un raggio d’oro attorno al volto e due stelle, una sopra l’occhio destro e l’altra presso la bocca, nell’orlo della guancia, similmente destra”.

La visione del raggio durò fino alle dieci di sera, causando un immenso accorrere di popolo che indusse il Marcacci ad avallare il fatto come miracoloso e ad ottenere dal granduca Ferdinando III l’autorizzazione a costruire in Cattedrale, in onore della Madonna, la cappella che fu chiamata del “Conforto”. Entrambi furono accusati dal piccolo, ma battagliero partito illuminista-giansenista di “scandaloso fanatismo“, ma ormai il miracolo era riconosciuto a furor di popolo, tanto da rimanere un punto fermo da allora a tutt’oggi nella vita e nell’immaginario collettivo degli Aretini.

Il Marcacci morì il 1° gennaio 1799 e fu sepolto nella cappella con una statua, opera dello scultore Stefano Ricci, che lo raffigura con un ginocchio a terra, in atto di indicare la venerata immagine.