"Il mio Natale da solo": Brezzi, romano ad Arezzo, simbolo delle famiglie divise dal Covid

Lo storico e professore: non posso andare dai figli nella capitale e loro non possono venire qui. Ma è giusto così: l'epidemia è una cosa seria, ci vedremo on line

Camillo Brezzi

Camillo Brezzi

Arezzo, 5 dicembre 2020 - E’ un romano ad Arezzo e quindi il Natale lo passerà da solo, senza i figli, senza i nipoti che erano i suoi abituali compagni nel cenone della vigilia, tipica tradizione della capitale. Camillo Brezzi, storico illustre, ex preside della facoltà di lettere (quando era tale), ex assessore alla cultura, è la perfetta metafora delle nostre festività mutilate, delle famiglie divise, degli affetti spezzati, più ancora della nostra vita rattrappita in tempo di Covidi, prima e seconda ondata.

Lui qui c’è arrivato 38 anni fa da giovane professore universitario di storia contemporanea e non si è più mosso: la passione della città di provincia per chi viene dalla metropoli. Dove (fra parentesi) è rimasta sempre la famiglia. Una tela che l’ultimo Dpcm di Conte taglia esattamente a metà: Brezzi non può andare dai figli perchè residente qui, i figli non possono venire da lui perchè vivono a Roma (tre su quattro) e a Parigi (uno con due dei quattro nipoti.

L’effetto inevitabile è la solitudine nei giorni in cui (una volta) nessuno voleva essere solo, ma al professore non pesa più di tanto: «Mi spiace, intendiamoci, non essere insieme a figli e nipoti con i quali avevamo una belissima tradizione natalizia, ma io questa storia del Covid l’ho presa sul serio fin dall’inizio. Ho 78 anni e ho paura.

Credo che dobbiamo essere tutti responsabili per uscirne, a costo anche dei sacrifici che per primo impongo a me stesso». Addio insomma al pranzo con la famiglia riunita, anche se Brezzi, che è un notorio buongustaio, assicura che sul tavolo di Natale non si farà mancare niente. Solo i figli, la più grande, docente universitaria di cines, la seconda, economista che lavora per l’Ocse a Parigi, l’unico maschio, dirigente di una grande azienda americana dell’auto, e la più piccola, dipendente della Regione Lazio.

«Ci siamo visti l’ultima volta a Ferragosto, quando sono venuti tutti a trovarmi qui ad Arezzo e abbiamo fatto una tavolata al ristorante, due figlie e due nipoti erano già passati a luglio per il compleanno. L’impegno era di rivedersi per il cenone della vigilia, ma è andata così». Già, perchè il professore un rigorista, uno che non avrebbe mai voluto allentare i cordoni, nemmeno durante l’estate, quando non si è mai mosso, altro che vacanze. A Conte, anzi, imputa la «debolezza di aver indebolito le misure, per non essere criticato da destra e mondo economico».

Ecco dunque che da marzo, dal primo lockdown, la vita del professore si è ridotta a un triangolo con al centro la sua abitazione di piazza San Iacopo: l’edicola Scartoni, dove la mattina compra i giornali, il tabaccaio davanti casa dove si rifornisce di sigari (fanno male alla salute ma qualche vizio se lo concedono anche gli storici rigoristi) e la libreria «Il viaggiatore immaginario della vicina piazza Risorgimento, dove fa provvista di letture.

«Sono abituato a studiare in casa e da quando sono in pensione non ho più neanche l’obbligo delle lezioni». Come si resiste a una esistenza così solitaria? «Leggendo, scrivendo e anche imparando a usare la tecnologia. Oro so adoperare Skype per vedermi virtualmente con familiari e amici e anche collegarmi a You Tube per seguire la finale del Premio Pieve, cui mi è molto dispiaciuto di non poter assistere, ma non mi fidavo. Il paese è piccolo, però arrivava gente da tutta Italia».

Lo storico semmai ha ritrovato se stesso e ne ha approfittato per completare il libro già avviato. Uscirà a gennaio per il Mulino, si intitola «L’ultimo viaggio» ed è dedicato appunto all’ultimo viaggio degli ebrei verso Auschwitz. Tema angosciante, ben poco natalizio. Il professore però sa distinguerlo dal suo Natale solitario: «Mangerò come si deve». Parola di storico