"Arezzo come una Pompei di desolazione"

Il grande storico Giorgio Spini, all’epoca ufficiale di collegamento inglese, racconta in un suo libro la Liberazione del 16 luglio ’44

Giorgio

Spini

I tedeschi avevano lavorato con coscienza e serietà a piazzar mine da ogni lato della strada per cui dovevamo avanzare dall’Olmo verso Arezzo in quella mattina di luglio e tutto attorno. Erano una specie di grosse padelle piatte di metallo e ognuna di loro era sufficiente per fare a pezzo un automezzo con tutti i suoi occupanti. C’era perciò in giro un grosso affaccendarsi di soldati britannici muniti di mine detector, un apparecchio formato da una lunga pertica di metallo con ad essa attaccato da far scorrere sul terreno: il disco aveva un congegno elettrico collegato a una specie di cuffia telefonica che l’operatore portava agli orecchi, il cui congegno mandava un ronzio sommesso che però si trasformava in un sibilo furioso quando il piatto avvertiva la presenza di un oggetto di metallo sotto terra.

(....) Ad ogni modo, quando il peggio dei campi minati fu superato, un gruppo di carri armati pesanti puntò su Arezzo ad andatura sostenuta e il capitano Sasson infilò la jeep su cui io e lui viaggiavamo subito dietro quei bestioni di acciaio (...) Quindi l’avanzata si Arezzo della nostra jeep sulla scia di un carro armato fu un’escursione abbastanza tranquilla (...) Non c’erano colpi di cannone e di mortaio dei tedeschi, non si sentiva nessuna sparatoria. Ma soprattutto non si scorgeva anima viva. Alla fine, da un casolare, spuntò un contadino anziano e ci fissò con l’aria di chi non si raccapezza con che gente abbia a che fare.

Solo dopo averci pensato su ben bene, capì che non eravamo i tedeschi, anzi eravamo quegli altri. Allora un po’ alla volta gli spuntò un sorriso sul volto rugoso e piano piano cominciò a battere una contro l’altra le sue vecchie mani per applaudirci. Come se quel battere di mani fosse stato un segnale, qualcuno cominciò ad uscir fuori e a salutarci. Ma erano poca gente (...) Soltanto le case distrutte o almeno sventrate dalle esplosioni aumentavano con un crescente impressionante. Capimmo di essere arrivati in una città ridotta a un cimitero dai bombardamenti e deserta quasi di abitanti. Uno spettacolo da fare sgomento anche a noi che alle devastazioni della guerra ci avevamo fatto il callo.

(...) Nei giorni precedenti, intorno a Cortona, avevamo incontrato i partigiani della Brigata "Pio Borri"(...) però da quelle informazioni non mi ero reso conto che entrando ad Arezzo mi sarei trovato in una specie di Pompei, fatta solo di rovine e di desolazione.

Infatti la desolazione di quella città superava qualsiasi previsione. Di partigiani con il fazzoletto rosso della "Pio Borri" se ne vedeva diversi, ma oltre a loro di gente rimasta in città ce ne era poco o punto e quella pochissima aveva l’aria stralunata di chi ne ha passate di ogni specie. Le rovine erano tante e tanto disastrose da chiedersi quando mai quello spettro di città sarebbe tornata alla vita. Però quando sbucammo con la jeep al Duomo, trovammo ad aspettarci una figura imponente di vegliardo, impassibile come una statua in mezzo a quell’orrore: il Vescovo. "Vescovo, monsignor Mignone (del Nord) - sta annotato sui mio taccuino - un santo. Grande indipendenza. Venti giorni fa ha dichiarato che gli assassini di Cristo erano armigeri assoldati come le attuali SS. Accanto a quel vecchione solenne stava pure un altro prete di mezza età, con un bel viso simpatico e bonario: monsignor Tanganelli, di cui poi mi narrarono il coraggio davvero esemplare durante l’occupazione nazista e la Resistenza.

Il vegliardo imponente ci salutò urbanamente e cortesemente si trattenne con noi per narrarci le atrocità commesse dai tedeschi nella sua diocesi, sterminando interi paesi e uccidendo qualcosa come 25 parroci. Ma anche nel cortese conversare, non perdertte neppure un istante quella sua dignità da gran signore di razza. Nel frattempo i tedeschi si erano accorti che eravamo entrati in Arezzo e ci stavano salutando con un po’ di granate. A quel fischio corto della malora che fanno le granate, viene fat

to anche ai più giovani di ringobbirsi un po’ nelle spalle. Ma il vecchio prelato restava impassibile, senza muovere un muscolo della faccia, come se nulla fosse. Veniva da pensare a quei Vescovi romani che restavano intrepidi al loro posto mentre crollava l’Impero e le città venivano distrutte dalle invasioni barbariche. Probabilmente erano fatti della stessa stoffa di questo qui di Arezzo (....).

Abbiamo riportato sin qui alcuni brani delle pagine che Giorgio Spini, uno dei maggiori storici italiani del ’900, ma in quel 1944 ufficiale di collegamento dell’esercito inglese, dedica all’ingresso degli Alleati ad Arezzo. Brani impressionanti per potenza espressiva e commozione letteraria che sono tratti dal libro che Spini (19162006) pubblicò nel 2002 per l’editore Claudiana, La Strada della Liberazione. Ci sembra l’omaggio migliore per ricordare un grande storico scomparso e una pagina importante della storia aretina di cui il 16 luglio si è celebrato il settantesettesimo anniversario.