10 aprile 1921: i fascisti calano su Arezzo Un morto a S.Iacopo, giorni di violenza feroce

Mario Ercolani, comunista, fulminato da uno sparo, i dirigenti rossi sequestrati e banditi. Colcitrone resiste ma poi deve arrendersi

Migration

Salvatore Mannino

Ill fascismo del 1921 è come l’Arno delle alluvioni: un fiume in piena, inarrestabile, che distrugge e devasta ovunque passino le sue acque. Solo che scorre al contrario: non dall’Aretino verso Firenze, ma dal Fiorentino verso Arezzo, dalle sue basi primigenie del capoluogo di regione, simbolo della gentil Toscana sconvolta dalle violenze di cui parla Angelo Tasca, il maggiore storico delle origini del fascismo, verso le terre degli infedeli, quelle in cui è ancora forte la presenza della sinistra socialista e comunista che nel Biennio Rosso 1919-1920 si era illusa di poter fare una rivoluzione impossibile. Dopo aver sommerso la prima zona della provincia che incontra nel suo cammino, il Valdarno delle miniere e della Ferriera, la terra dei fatti di Castelnuovo di cui è appena trascorso il centenario, il 23 marzo, lo squadrismo dilaga dunque nel capoluogo.

Il giorno simbolo è il 10 aprile 1921, un secolo fa esatto. Quella domenica la città del dì di festa scopre sulla sua pelle come sappia di sale il fascismo incipiente. Quattro giorni prima il fascio del capoluogo, sorto (anche di questo si è già scritto) il 12 marzo, si dà un assetto definitivo e invia a Mussolini un telegramma con un "triplice alalà al fondatore del fascismo". Ma i fascisti locali, guidati da Alfredo Frilli, sono ancora troppo deboli per prendersi da soli la responsabilità di impadronirsi del centro urbano. Ci pensano gli squadristi fiorentini, reduci dall’occupazione di Bucine e da una spedizione punitiva a Rassina, che si radunano nell’allora piazza Umberto, ora piazza San Francesco. Da lì, armati e inquadrati discendono il Corso Vittorio Emanuele (ora Corso Italia) fino a una piazza San Iacopo molto diversa da quella attuale, ancora con la fonte sul fronte meridionale ad angolo, da una parte la via principale che prosegue verso i Bastioni, dall’altro la strada d’accesso al popolare quartiere di Santo Spirito (distrutto dalle bombe della seconda guerra mondiale e trasformato in piazza Risorgimento), con a lato il Caffè Commercio, dove ora c’è Zara. E l’ora del più intenso passeggio serale e tra i tanti che vanno a spasso con la fidanzata c’è anche Mario Ercolani, barbiere comunista, bersaglio casuale fulminato da una pallottola della sparatoria che gli squadristi fiorentini scatenano all’improvviso.

L’impressione è enorme, la folla scappa in tutte le direzioni, le forze dell’ordine, come sempre quando ci sono di mezzo i fascisti, arrivano tardi e male, a cose fatte, ordinando la chiusura immediata di bar e ristoranti. La notte cala su una città disorientata e terrorizzata, ma non è ancora finita.

A mezzanotte cala da Firenze un’altra spedizione squadrista, al comando di Amerigo Dumini, il famigerato assassino di Matteotti che ad Arezzo era già stato protagonista delle prime violenze di dicembre. I fascisti si lanciano subito all’assalto della Camera del Lavoro, in piazza Guido Monaco: i locali vengono svuotati, il mobilio accatastato all’esterno nel classico rogo purificatore della liturgia squadrista. Poi scatta la caccia ai dirigenti socialisti e comunisti. Tocca per primo a Luigi Mascagni, deputato socialista, trascinato all’abergo Stella di via Guido Monaco e costretto all’abiura di quanto aveva detto a Montecitorio: "I fascisti non verranno e se verranno saranno bene accolti". E’ la volta poi di Orazio Mori, dirigente comunista, fondatore della libreria omonima chiusa solo da qualche anno, e di Ettore Mordini, segretario della Camera del Lavoro, sorpreso al capezzale della moglie nel vecchio ospedale ancora in centro, dove ora ci sono i portici di via Roma: per lui c’è il bando immediato, deve sparire dalla città.

Il lunedì mattina arrivano altri rinforzi di camicie nere, provenienti ancora da Firenze, Perugia e persino Ferrara, la patria di Balbo. Vengono ricevuti dal sindaco moderato Carlo Nenci, che raccomanda moderazione, ma non nasconde la simpatia del pezzo di Arezzo che rappresenta. A notte, dopo una sparatoria davanti al Caffè dei Costanti, i fascisti, preceduti dai carabinieri, si lanciano all’attacco del quartiere rosso di Colcitrone, quello degli operai della Sacfem, che resiste in armi. I primi colpi raggiungono i fascisti al Canto de’ Bacci, fino all’alba si combatte: gli squadristi schierati in via dell’Orto e al Prato, i rossi che rispondono dal Praticino e costringono alla fine gli avversari alla ritirata, bersagliati dal fuoco che parte dalle finestre.

Il martedì sera una spedizione nera raggiunge Sansepolcro, dove viene distrutta la Camera del Lavoro, nei giorni successivi si cercherà di imporre anche le dimissioni della giunta rossa, ma il sindaco socialista Dragoni e il compagno di partito Luigi Bosi, altro deputato, non mollano. Cade invece l’amministrazione rossa di Anghiari, dirigenti e militanti di sinistra si danno alla macchia.

La pressione è enorme, tanto che la stessa notte del mercoledì i fascisti tornano all’attacco di Colcitrone. Vengono ancora respinti, servirà che il giorno dopo siano i carabinieri a fare pulizia della resistenza, spianando la strada ai neri. E non è ancora finita, perchè la notte del giovedì è la volta del Casentino: una colonna di fuoco di squadristi che parte da Arezzo e terrorizza la vallata, fino a Papiano, comune di Stia, nota come la "Piccola Russia". A Stia e Pratovecchio vengono devastati circoli e case del popolo. Mascagni è costretto a una nuova dichiarazione in cui si prende lui la colpa di quanto sta accadendo. Al venerdì, l’occupazione del capoluogo e di tre vallate su quattro è pressochè completa. Manca solo la Valdichiana, il cuore dell’organizzazione mezzadrile rossa. Dove la domenica dopo, a Renzino, comune di Foiano, avverrà il più truce degli episodi di violenza, con dodici morti fra squadristi, militanti di sinistra e persino passanti. Un caso che scuote l’Italia, come Empoli, Roccastrada e Sarzana. Ma ci sarà modo di riparlarne.