Un Senato a perdere

L'editoriale del direttore de La Nazione

Pier Francesco De Robertis, direttore de La Nazione

Pier Francesco De Robertis, direttore de La Nazione

Firenze, 4 ottobre 2015 - Un sentito grazie al senatore Barani che con un solo gesto ci ha tolto ogni dubbio sull’inutilità del Senato della Repubblica, e che probabilmente farà crescere nel premier i rimpianti per non aver avuto il coraggio di osare fino in fondo dove forse neppure lui pensava di poter arrivare a osare, limitandosi a proporre solo la riduzione delle funzioni di un organo col tempo dimostratosi inopportuno molto più di D’Alema.

E per non gettare troppo la croce sopra il senatore - si fa per dire - Lucio Barani, uomo dal passato controcorrente e quasi mai banale, ricordiamo come già da giorni Palazzo Madama fosse stato teatro di azioni altrettanto grottesche e offensive per le istituzioni. Non che alla Camera tutto fili liscio, per carità, ma se cinema deve essere allora ne basta uno solo, visto che non c’è pubblico pagante e che lo spettacolo è a carico di tutti noi.

La storia degli 80 milioni di emendamenti presentati da Calderoli, per esempio, era stata a suo modo forse più inquietante del gestaccio volgare ma probabilmente dal sen sfuggito di Barani, con un senatore - si fa per dire - che ha utilizzato uno strumento di tecnica parlamentare per ricattare l’assemblea, arrivando addirittura a proporne il ritiro in cambio della grazia a un detenuto.

Apprezziamo il gesto di squisita sensibilità istituzionale di Calderoli che non ha chiesto la restituzione dei punti sulla patente o la cancellazione di una multa per un parente. Senza rimpianti, con l’approvazione ieri dell’articolo due della riforma, ci avviamo quindi alla conclusione di una vicenda che ha lasciato sul terreno una buona parte di fiducia dell’opinione pubblica verso le istituzioni e del rapporto che - aspetto che poco ci angustia ma non è meno rilevante - legava il popolo di sinistra alla cosiddetta minoranza del Pd, quella minoranza che (Bersani in testa) alla fine degli anni Novanta approvò a maggioranza la sciagurata riforma del Titolo V, che qualche mese fa si oppose a parole ma non nei fatti all’Italicum ossia alla legge elettorale dei nominati, e che invece adesso ci voleva far credere di voler immolarsi e immolare la riforma costituzionale sull’altare dell’eleggibilità dei senatori.

La realtà è che tutti gli assetti istituzionali che si vanno configurando in Italia, dalla nuova costituzione monocamerale alla legge elettorale così marcatamente maggioritaria, rispondono a una esigenza di rafforzamento dei poteri del governo, esigenza figlia, magari per reazione, dell’immobilismo che la politica ha assunto in Italia negli ultimi trenta anni, e di cui il sistema dei partiti in qualche modo transitati dalla prima alla terza repubblica è stato protagonista, in negativo.

A forza di chiacchierare per anni e anni, di consultare, di concertare senza cambiare il Paese arriva qualcuno che suona il flauto dell’azione e della concretezza e tutti immancabilmente gli credono. Ci aveva provato Berlusconi, non c’era riuscito, adesso quella musica l’ha suonata Renzi e pare aver raggiunto lo scopo. C’è da augurarsi per il bene dell’Italia che sia lo spartito giusto. [email protected]