Veneto Banca aveva il 6% di Etruria: quell'alleanza mai decollata

La notiza è emersa tra le maglie della commissione d'inchiesta: la quota lo rendeva uno dei grandi azionisti. Nella foto Vincenzo Consoli, a lungo a capo di Veneto Banca

Vincenzo Consoli (Imagoeconomica)

Vincenzo Consoli (Imagoeconomica)

Arezzo, 20 novembre 2017 - Che il presidente di Veneto Banca Vincenzo Consoli si fosse prestato in extremis (fra la fine di gennaio e i primi di febbraio 2015, immediatamente a ridosso del commissariamento) a un tentativo di salvataggio di Banca Etruria La Nazione, come altri giornali, lo aveva raccontato qualche mese fa. Ma allora non si sapeva che fra il 2008 e il 2009 la seconda delle popolari venete, anch’essa travolta dalla crisi, avesse messo le mani, direttamente e indirettamente, su una quota del 6% di Bpel.

Retroscena ignoto fino a due giorni fa, quando è emerso a margine della pubblicazione di un audit interno dell’istituto di Consoli del 29 febbraio 2015, pochi giorni dunque l’abbozzato e mai decollato tentativo di salvataggio in extremis. Che ci faceva allora Veneto Banca con una partecipazione che la rendeva uno dei grandi azionisti di Etruria, forse addirittura il maggiore, visto che il capitale era estremamente frazionato, diviso fra 60 mila soci?

Se la banca aretina fosse stata all’epoca una Spa vera e propria, come la riforma del gennaio 2015 le avrebbe imposto di diventare (ma qui non fu mai attuata perchè prima arrivarono i commissari e poi la risoluzione del 22 novembre 2015), si potrebbe ipotizzare un tentativo di scalata, un pugno di azioni rastrellate in Borsa e fuori per comandare in via Calamandrei. Etruria però era, come Veneto Banca e tutte le popolari, una società cooperativa, nella quale valeva la regola del voto capitario: in assemblea non contavano le quote di capitale ma il voto per testa. Insomma chi aveva un’azione pesava quanto chi aveva il 51%.

La soluzione al mistero la forniscono forse fonti vicine agli ex amministratori di Bpel. Ci fu un momento, intorno al 2008 appunto, in cui si pensò a un’aggregazione fra Etruria e Veneto Banca, così come si studiò l’ipotesi di un’alleanza dell’istituto aretino con Banca Popolare Milano, che per un certo periodo fu il faro nazionale attorno al quale si mosse Etruria. Erano i tempi del Risiko bancario, della nascita dei giganti Intesa e Unicredit.

Anche le popolari misero allo studio progetti per adeguare le loro dimensioni. Gli approcci con Consoli rientravano in questo quadro. Tanto che anche Bpel, spiegano le stesse fonti, ebbe per qualche tempo in portafoglio una quota minima di Veneto Banca, sotto lo 0,5%.

I banchieri di Montebelluna furono invece assai più decisi. In parte comprarono quote di Etruria in proprio, in parte finanziarono clienti amici perchè facessero altrettanto. E’ il caso del finanziere locale Andrea De Vido che ebbe un fido per 10 milioni il cui fine era l’acquisto di azioni Bpel, rimaste però in pegno a Veneto Banca. Altri acquistarono, sempre finanziati da Consoli, quote da 80 mila a 300 mila azioni Bpel.

Furono così superati i limiti imposti dalla legge (nessun socio di una popolare poteva aveva più dello 0,5) e da Consob (segnalazione di ogni quota superiore al 2). Tanto che Banca Etruria scrisse sia a Veneto Banca che a De Vido intimando la vendita delle quote eccedenti. Non successe niente, solo la Popolare di Montebelluna sterilizzò i suoi diritti di voto. Ma a cosa servissero le quote e che fine abbiano fatto nessuno lo ha mai capito.