Torna dalla guerra, spara e uccide la sua ex di vent'anni: un femminicidio di un secolo fa

La storia amara e terribile di Ida ed Eugenio, che poi per due volte tenta il suicidio. "Ci eravamo giurati eterno amore" è anche il titolo del libro di Enzo Gradassi

Eugenio Riccucci

Eugenio Riccucci

Arezzo, 19 febbraio 2017 - Il 1919 fu in Italia, ed anche nella nostra provincia, un anno di forti tensioni sociali: al ritorno dal fronte operai e contadini trovarono una situazione economica ancor peggiore di quella che aveva preceduto la Grande Guerra. Le campagne furono percorse da un fremito di ribellione per la conquista di un nuovo patto colonico, anche se l’aspirazione di fondo era già il grido “la terra ai contadini”.

In Valdarno era esplosa l’agitazione nel bacino lignitifero e a partire da giugno anche la città fu coinvolta nei moti contro il carovita. Di questo clima teso non c’è traccia nella storia privata di Ida Viti ed Eugenio Riccucci se non un richiamo (Viva D’Annunzio) che rimase incomprensibile a quanti condussero le indagini. Ida ed Eugenio erano due giovani di Brolio (Castiglion Fiorentino) quasi coetanei, poco più che ventenni.

Il mattino del 18 settembre 1919, lui la raggiunse alle “Prode della Chiana”, dove stava pascolando le vacche: ebbero una breve discussione sentita solo da alcuni bambini che vigilavano sui propri animali al pascolo. Eugenio era uscito di casa portando in tasca una rivoltella caricata con quattro colpi: ne esplose due, diretti al cuore, contro Ida, poi rivolse l’arma e lasciò partire gli altri due.

Eugenio era stato congedato dal servizio militare dopo aver contratto una meningite cerebro spinale che lo aveva menomato nel fisico e reso completamente sordo ed era andato da Ida, che considerava sua fidanzata, ma che era in procinto di sposarsi con un altro per volontà sua e dei propri familiari: Eugenio era considerato un infelice e, oltretutto gli era stata negata la pensione come invalido di guerra, ma lui riteneva di dover onorare un giuramento fatto con Ida prima di partire soldato.

Ci giurammo eterno amore e poiché la sua famiglia era contraria a questo amore ci promettemmo di ucciderci nel caso persistesse questa contrarietà: questa è la chiave di lettura che Eugenio, che era sopravvissuto ai colpi che si era sparato, sostenne con chi lo interrogava sulle ragioni del delitto. Eugenio venne prosciolto dall’imputazione di omicidio ed inviato al Manicomio criminale di Montelupo Fiorentino (l’istituto giudiziario definitivamente chiuso pochi giorni fa) e qui ostinatamente tentò ancora di uccidersi e confermò ai medici che non capiva il motivo del suo internamento. Lui aveva “solo” tentato di uccidersi, cosa che riteneva un proprio diritto.

Ida era “sua” (dal Reggimento le aveva anche spedito una cartolina con l’immagine significativa di due cuori intrecciati e la scritta “L’anima tua appartiene a me”) e con lei affermava di aver giurato di preferire la morte alla separazione. Ma è solo la sua versione: quella di Ida non esiste se non filtrata dalle testimonianze divergenti dei suoi familiari e di Eugenio stesso. Lei era la vittima, ma per lei non c’è, nelle carte ufficiali, nemmeno una parola di compassione, anzi ad un certo momento viene definita “la fedifraga” all’interno di descrizioni che somigliano in modo impressionante ai “se l’è cercata” che troppo spesso aleggiano attorno ai casi di violenza sulle donne.

Eugenio superò la fase acuta della malattia mentale e da Montelupo venne trasferito al Manicomio di Arezzo e tenuto in osservazione per due anni da due scrupolosi psichiatri come il dottor Ascanio Aretini e il dottor Enrico Nucci, collaboratori del leggendario Direttore Arnaldo Pieraccini. Nel 1923, giudicato guarito, venne dimesso ed affidato alla custodia di un fratello.

È una storia da leggere avendo in mente la cultura sanitaria e giuridica del tempo: limitata all’osservazione criminologa e psichiatrica la prima, di normale accettazione perfino del “delitto d’onore”, lontano mille miglia da concetti come femminicidio, la seconda. Eppure la vicenda di Ida ed Eugenio è questo: l’uccisione di una donna, di poco meno di cent’anni fa, con la stessa logica con la quale avvengono con una drammatica sequenza i femminicidi di oggi (da poco caratterizzati come reato specifico).

Una vicenda che è sopravvissuta soltanto nelle parole di un anonimo cantastorie, intrise del senso comune del tempo, stampata in un foglio e per molti anni venduta per un soldo al mercato del venerdì di Castiglion Fiorentino: una sorta di “post verità” acriticamente accettata per parecchi decenni.

I rapporti sociali e familiari, il ruolo e la considerazione per la donna, l’imperante pregiudizio rimangono confinati sullo sfondo e viene isolato soltanto l’episodio da mandare a mente e da raccontare nelle serate di veglia. Ida non era più rilevata dai radar scientifici, ma solo dai versi del cantastorie: “Lui in galera, lei è morta / Ida sposa non è stata più”. Invece Eugenio poté tornare alla vita “normale” e nel 1937 si sposò. Solo Ida sposa non è stata più.

di Enzo Gradassi