ANGELA LOMBARDO
Cronaca

La violenza in famiglia: "Diventano vittime anche i bambini costretti ad assistere"

Riflettori sulle conseguenze del crescere in un ambiente instabile. Si tratta di traumi difficili da affrontare anche senza arrivare . agli episodi estremi in cui il minore è presente all’uccisione della madre .

Daniela Lorenzini, psicologa e psicoterapeuta, al convegno di Santo Stefano

Daniela Lorenzini, psicologa e psicoterapeuta, al convegno di Santo Stefano

"Papà ha ucciso la mamma". Ha scosso le coscienze l’ennesimo femminicidio consumato di recente a Settala. Perché a chiamare di nascosto il 118 è stata la figlia, una bambina di 10 anni. Un episodio che accende i riflettori non solo sul dramma della violenza di genere, ma anche su un altro aspetto dai risvolti più nascosti, di cui si parla poco, ma altrettanto preoccupante. È la violenza assistita, definita dal Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso dell’Infanzia (Cismai) come "il fare esperienza da parte del bambino o della bambina di qualsiasi forma di maltrattamento, compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative".

Tema importante, sollevato con forza da Daniela Lorenzini, psicoterapeuta e psicologa giuridica, al recente convegno organizzato dal Comune di Santo Stefano Magra su “La violenza di genere nella nostra società. Come combatterla: strumenti attuali guardando al futuro”. "Senza arrivare agli episodi estremi in cui il minore assiste all’uccisione della madre – spiega Lorenzini –, vivere in una situazione in cui il padre esercita una qualunque forma di violenza sulla madre, crea un ambiente instabile che nei bambini alimenta paura, confusione e profondo disagio".

Quali effetti ha la violenza assistita sul bambino?

"A governare le emozioni nel nostro cervello sono l’amigdala e la corteccia prefrontale. La prima è coinvolta nella percezione della paura e di altri stimoli emotivi ed è la parte cerebrale che ci spinge a reagire. La parte prefrontale, invece, regola le risposte emotive, l’impulsività e ci permette di controllare il comportamento. Il problema è che la costruzione e la maturazione delle strutture prefrontali avviene in età infantile e solo in un ambiente sicuro e che supporta il piccolo sul piano emotivo. Senza queste condizioni lo sviluppo non avviene in maniera completa e corretta o addirittura non avviene. Una situazione di costante tensione, percepita dal bambino come di continuo pericolo e paura, genera inoltre un’iperattivazione dell’amigdala che la corteccia frontale non riesce più a contrastare. Come risultato, il bimbo sviluppa una eccessiva attenzione a tutto ciò che gli accade intorno, sempre alla ricerca di un segnale di pericolo da cui difendersi. Focalizzare tutta l’attenzione in questa direzione significa sottrarla all’apprendimento, alla capacità di decodificare i messaggi degli altri, alla capacità di socializzare".

Un disagio non da poco. Come affrontarlo?

"Attuando interventi ad hoc sul bambino. Il cervello in via di sviluppo è plastico ed è possibile riparare o rafforzare il dialogo tra corteccia prefrontale e amigdala attraverso relazioni positive, l’aiuto di un terapista, contesti protettivi. Ma bisogna farlo subito, perché più si va avanti con gli anni più diventa difficile ’riparare’ questa connessione. Perché quello che è perso durante l’infanzia costituisce un trauma che, come dico sempre ai ragazzi, una volta che c’è non lo puoi cancellare, ma puoi lavorarci per incapsularlo, metterlo da qualche parte e continuare a vivere la tua vita".

Cosa succede se non si interviene?

"I dati in letteratura sono ormai copiosi e molto specifici in questo senso. Se non si avvia un percorso di creazione o ricostruzione di una sana comunicazione emotiva, ci si ritrova spesso con bambini che cominciano in preadolescenza, a 12-13 anni, a manifestare quello a cui hanno assistito negli anni precedenti in un vissuto familiare in cui sono mancati il dialogo, l’empatia, la capacità di leggere la mente dell’altro, la capacità dei genitori di sintonizzarsi con il figlio. Diventano bulli, aggressivi, si associano in bande. La violenza diventa l’unico modo di rapportarsi all’altro. Un altro che non esiste se non nella misura in cui soddisfa dei bisogni. E se non lo fa lo si costringe. Il disagio di questi bambini diventa quindi terreno fertile per lo sviluppo di patologie psichiche e facilmente saranno adulti violenti".

Quali soluzioni adottare?

"Oltre all’intervento tempestivo sui minori, penso si debba avviare una seria prevenzione attraverso una specifica formazione per i genitori. Un lavoro con le mamme e i papà, che li informi e gli faccia capire cosa vuol dire diventare genitori, che cos’è un neonato, cosa succede e come cresce la mente del figlio. Un percorso che insegni a vedere e ascoltare il bimbo, a riconoscere i segnali dei suoi tentativi di connettersi con loro. E, soprattutto, che spieghi come creare un ambiente sicuro in cui favorire una sana e corretta crescita. Costerebbe anche molto meno di quanto lo Stato spende per i servizi di neuropsichiatria infantile, intasati e con liste di attesa di cinque-sei mesi. Certo non basterebbe a metterci completamente a riparo da tutti i problemi, ma di certo contrasterebbe l’aumento dei ragazzini problematici che si rivolgono ai servizi di neuropsichiatria infantile e di quelli che, verosimilmente, saranno adulti violenti".