Sacerdoti delle pentole "Il sottovuoto è facile Lo possono fare tutti Ma l’arrosto della zia?"

Modernità e fusion contro la territorialità, la sostanza contro la forma "Le pietanze delle donne di casa insegnano il rispetto delle materie. I ragazzi escono da scuola e conoscono la chimica, ma nulla più".

Sacerdoti delle pentole  "Il sottovuoto è facile  Lo possono fare tutti  Ma l’arrosto della zia?"
Sacerdoti delle pentole "Il sottovuoto è facile Lo possono fare tutti Ma l’arrosto della zia?"

Cucina fusion o polpette alla camaiorese della nonna? Molecolare o tordelli fatti in casa? Sous-vide o cacciucco alla viareggina? Per la fortuna di tutti la tradizione gastronomica è ancora viva. Per lo meno nelle kermesse, visti gli assalti alle cucine del Carnevaldarsena per una vaschetta del risotto seppie e bieta, il piatto principe della storia del Rione, cucinato da Vincenzo Biagi seguendo la ricetta originale degli anni Settanta. Ma come si sopravvive, con la tradizione, in un mondo che spinge in tutt’altra direzione?

"La tradizione va mantenuta – spiega Giacomo Beconcini dell’Osteria Piazza Grande –; anche gli chef stellati modificano i propri piatti, ma tenendo conto della tradizione, che vuol dire cucinare nel modo più semplice possibile, mantenendo le proprietà del prodotto. L’innovazione semmai si applica all’impiattamento, alla forma. I ragazzi? Dobbiamo trasmettergli il valore di quel che abbiamo appreso. Oggi escono da scuola con una formazione diversa da quella che avevamo noi: sono anche dei chimici, mentre ai miei tempi si parlava d’altro. È il motivo per cui le persone della mia età devono tenersi sempre aggiornate. Ma lo dirò finché campo: la tradizione è tutto in cucina". Tradizione come quella, mitica, dei tordelli al ragu della Casa del Popolo di Solaio, opera di Filiberto Maremmani. "Usiamo la ricetta storica – spiega –, sia per i tordelli che per la trippa di Solaio, che va forte".

Ma tradizione vuol dire anche certezze, sicurezza. E infatti "il principio fondamentale è non tradire mai chi ha imparato a conoscerti – spiega Riccardo Santini, una vita nel mondo della ristorazione, dai tempi del Vignaccio alla bottega-taverna Baccalà Vino e Merendino, con la moglie e la figlia dietro ai fornelli –; il piatto può essere più o meno buono, si va a serate. Quel che non deve mancare sono la verità, la ricerca, la stagionalità. Bisogna investire tempo, trovare il contadino che ti porta quella specifica insalatina di poggio. E imparare qualcosa di nuovo tutti i giorni". E soprattutto, non pensare che la tecnica e la tecnologia possano risolvere tutto: "Al giorno d’oggi vanno di moda il guacamole, la bassa temperatura e così via. Uno chef con tre stelle mi ha detto che la bassa temperatura la sanno fare tutti; un arrosto come lo faceva mia zia invece no. È un problema anche di formazione: tanti ragazzi vanno a fare gli stage in ristoranti dove per sei mesi hanno la stessa mansione. Non è colpa loro, ma di un sistema che non dà importanza alla conoscenza degli erbi di campo, degli asparagi selvatici, del soffritto. Delle basi, insomma. Non si diventa ingegneri senza la matematica. Altrimenti si abusa di lemon grass, senza sapere che sulle colline di Massa ci sono limoni che lo farebbero vergognare".

E poi c’è l’ingrediente imprescindibile: il tempo. "Stamani (ieri; ndr) abbiamo fatto il ragu: messo su alle 10, sta a “pippiare“ fino a metà pomeriggio. Oggi i forni fanno tutto, siamo ricchi di tecnica, si sanno fare tante cose: ma a che serve se poi non siamo in grado di scegliere i funghi o di accostare le erbe ai vari piatti?"

Daniele Mannocchi