REDAZIONE VIAREGGIO

La Salov fa i conti con i dazi. Laviola: "C’è apprensione. Ma conto sulla mediazione"

L’amministratore delegato del colosso dell’olio continua ad essere fiducioso sul mercato, anche se "un incremento fino al 30% sarebbe un disastro per gli stessi consumatori americani".

L’amministratore delegato del colosso dell’olio continua ad essere fiducioso sul mercato, anche se "un incremento fino al 30% sarebbe un disastro per gli stessi consumatori americani".

L’amministratore delegato del colosso dell’olio continua ad essere fiducioso sul mercato, anche se "un incremento fino al 30% sarebbe un disastro per gli stessi consumatori americani".

La minaccia dei dazi paventati da Trump aleggia, come uno spettro, sulle teste dei consumatori e delle aziende che esportano i loro prodotti negli States. In Versilia se pensiamo ad una grande società, e se nello specifico pensiamo al settore agroalimentare, il pensiero va alla Salov, acronimo di Società per Azioni Lucchese Olii e Vini, vanto della Versilia e della lucchesia in tutto il mondo. I dazi potrebbero essere una spada di Damocle per il suo sviluppo futuro o più semplicemente anche solo per il mantenimento degli standard raggiunti in oltre un secolo di storia. Ne parliamo con Gianmarco Laviola, amministratore delegato del gruppo Salov dal gennaio 2025. Originario di Bari, 54 anni, vanta una laurea in Economia aziendale, con specializzazione in Marketing, presso l’Università Bocconi di Milano. Dalla sua un’esperienza trentennale in importanti realtà internazionali del Food and Beverage, come Kpmg, Unilever, Anheuser Busch, Mareblu (gruppo Thai Union Group Pcl), Simmenthal (Bolton Alimentari). Inoltre Laviola ha ricoperto anche la carica di amministratore delegato di Princes Italia. Con la sua nomina il gruppo Salov ha puntato, in particolare, a rafforzare il valore del marchio Filippo Berio, che oggi è già presente in oltre 70 Paesi in giro per il mondo.

Dottor Laviola che rapporti ci sono tra il marchio Filippo Berio e gli Usa? "C’è un cordone ombelicale estremamente resistente. Il marchio Filippo Berio è nato proprio sull’altra sponda dell’Atlantico 150 anni fa. L’olio d’oliva partiva da qui, dagli oliveti della lucchesia, per raggiungere gli emigrati toscani".

Quindi gli Usa, per mezzo dei dazi tanto cari a Trump, potrebbero diventare essi stessi carnefici di un marchio che hanno visto nascere e confermarsi a livello internazionale? "Il rischio potrebbe esserci e non possiamo nascondere il fatto che ci sia apprensione, ma non bisogna lasciarsi prendere dal pessimismo. In affari la fretta è cattiva consigliera".

Ci spieghi meglio. "Il nostro settore, a partire da aprile, già subisce dei dazi al 10%. La minaccia dei dazi al 30% credo che resterà tale".

Non teme che dalla minaccia si arrivi ai fatti? "Credo e spero proprio di no. Trump è un abile uomo d’affari. A suo modo un abile negoziatore. Può sembrare rude nei modi e nelle parole, ma non è un ingenuo. Diciamo che spara alto per ottenere in cambio qualcosa che possa comunque portargli vantaggi".

I dazi al 10% vi hanno già arrecato danni? "I dazi, provocando un aumento generalizzato dei prezzi nei settori colpiti, creano sempre danni a tutte le parti in causa del commercio. Siano essi i produttori, gli intermediari ed i clienti finali, i consumatori. Diciamo che però il made in Italy ha la sua storia che ne protegge la sua reputazione nel mondo. In sostanza, aumenti dei prezzi contenuti riescono ad essere difendibili dai prodotti italiani grazie al gradimento che i mercati internazionali gli riconoscono, e al livello di qualità che ci rende unici al mondo. Certo che se si arrivasse al 30% le cose potrebbero cambiare, in peggio".

Le percentuali precise? "Il prodotto che esportiamo arriva negli Usa gravato di un 10% di dazi, ad esso dobbiamo sommare la svalutazione, già in atto, del dollaro che pesa di un ulteriore 14%, da gennaio di quest’anno. Quindi i nostri prodotti oltreoceano già sono gravati da un incremento effettivo del 24%. Se a questo aggiungiamo un ulteriore 20%, come paventato da Trump dal 1° agosto, si arriva a un 44% di aumento di costo, ma mica è finita qui. Il supermercato americano applicherà un ulteriore ricarico. Quindi alla fine il consumatore finale pagherà minimo un 50% in più". Percentuali che porterebbero a un disastro per tutti. "Esattamente. Anche i consumatori americani ne pagherebbero, in soldoni, le conseguenze quindi credo che ciò non avverrà. Alla fine questa scelta creerebbe inflazione insostenibile negli Usa. Inoltre, altro aspetto da considerare, un ulteriore aumento dei dazi faciliterebbe la diffusione dell’odioso fenomeno chiamato ‘Italian Sounding’, cioè la commercializzazione di prodotti che sembrano italiani (per nome o per la grafica del pacco) ma che di italiano non hanno nulla, e che, in questo caso, gioverebbero di un differenziale di prezzo molto elevato". In attesa che la mediazione porti ad un accordo, però, si resta immobili. "In questo momento non c’è altro da fare. Il clima di incertezza danneggia tutto il reparto del Food. Ogni tipo di investimento resta congelato in attesa di avere chiarezza sul futuro e non potrebbe essere altrimenti".

Il fatturato di Salov negli Usa? "Attorno ai 200 milioni di dollari e una buona parte di questo resta negli Usa dove non produciamo direttamente, ma abbiamo una nostra sede con 40 dipendenti, cittadini americani".

Quindi cauto ottimismo? "Direi di sì, anche perché l’economia si regge su un approccio empirico. Aspettiamo che la mediazione faccia il suo corso. Alla fine un accordo dovrà essere raggiunto, onde evitare uno scenario economicamente tremendo. Uno scenario in cui nessuno ne uscirebbe vincitore, nemmeno chi all’inizio potrebbe pensare di aver vinto. La storia ci insegna che i dazi non sono la soluzione, anzi alla lunga arrecano danni anche a chi ha voluto introdurli".

Sergio Iacopetti