{{IMG_SX}}Firenze, 3 settembre 2009 - Fanno quasi il giro del mondo, 38mila chilometri, le tubazioni degli acquedotti toscani. E sono percorse da un liquido fantasioso che sembra possedere lo spirito di avventura dei viaggiatori più curiosi: ad ogni cantone l’acqua esce dalla sua strada obbligata per bagnare qualche via, inumidire i campi, affiorare inaspettatamente dove non dovrebbe e (troppo spesso) mancare l’appuntamento all’apertura dei rubinetti. Tutto questo accade con costi, per le famiglie e gli imprenditori, mediamente più alti di quelli imposti nel resto del Paese e comunque con una disparità di tariffe — tra un comune e un altro della stessa regione — che si fatica a comprendere.

Quella dell’acqua toscana è la storia di un equilibrio instabile, di una risorsa a volte distribuita con il contagocce mentre si disperde a fiumi fuori da condutture colabrodo: il 35 per cento viene sprecata, 150 milioni di metri cubi all’anno che sono un’oggettiva enormità rispetto ai 282 milioni venduti e consegnati a domicilio. Tutto nasce da una rete idrica vecchia, da piani finanziari di manutenzione sottostimati rispetto alle esigenze di ammodernamento e dall’impossibilità di recuperare tutte le risorse necessarie: perché le due leve finanziarie ipotizzabili sono impraticabile una (l’intervento degli enti pubblici) e insufficiente per quanto esosa l’altra (l’aumento ulteriore delle tariffe oltre al 5% annuo già stabilito in aggiunta all’inflazione programmata).

Il risultato è che gli acquedotti invecchiano ancora di più, le perdite crescono dello 0,6 per cento all’anno, il servizio ai cittadini non migliora e comunque il costo sale. Cispel Confservizi Toscana, che riunisce le aziende di gestione, ha analizzato le criticità generali. Ipotizzando che la vita media di un tubo, prima di fare acqua da tutte le parti, sia di quaranta anni, ogni dodici mesi in Toscana devono essere sostituiti 950 chilometri di conduttura per scongiurare la morte metaforica della rete. Questo ringiovanimento ha un costo di 138 milioni di euro all’anno mentre i Piani d’Ambito ne rendono disponibili solamente un terzo, 48,8: all’appello mancano 93 milioni di euro all’anno, senza i quali viene vanificata anche la messa a punto di sistemi evoluti di ricerca delle perdite studiati per abbassare in cinque-dieci anni al 28% — sarebbe considerato un buon traguardo — il tasso delle perdite.

La Toscana è stata la prima regione a applicare, nel 1999, la riforma della legge Galli che dispone la copertura integrale dei costi, inclusi gli investimenti (180 milioni di euro nel 2007, per esempio). Questa è la spiegazione che viene data sia al caro-record delle tariffe che alla loro diversità nei sei ambiti territoriali in cui la regione è divisa: ci sono distinti piani economici e tempi differenziati di avvio delle gestioni. Le motivazioni appaiono però burocratiche ai profani, compresi i cittadini utenti del servizio: è vero che prima della legge Galli c’erano duecento enti a occuparsi di acqua, fognature e depurazione, ma i risultati non depongono a favore dell’attuale organizzazione (sette gestori del servizio idrico integrato in sei ambiti territoriali) con un esercito di 2.620 dipendenti. Chi vuole può consolarsi riflettendo sul fatto che in Germania, Francia e Gran Bretagna le tariffe sono doppie anche di quelle toscane ma è difficile immaginare che i tedeschi lascino a piede libero il 35 per cento della loro wasser.

In aggiunta ai 3 miliardi di euro di investimenti previsti dalle aziende toscane dell’acqua in 20 anni, secondo il Cispel sono indispensabili altri 900 milioni di euro: «In mancanza di interventi pubblici, ammortizzando la spesa in 25 anni, si avrebbe un investimento annuo di 80 milioni che produrrebbe un aumento di 0,33 euro al metro cubo con evidenti ripercussioni negative sulla sostenibilità della tariffa». Lo dicono anche loro.