Migranti, l’appello di Padre Enzo: "Riscopriamo la nostra umanità"

Dal Sacro Convento di Assisi a Rocca di Papa tra i profughi della Diciotti

I migranti sulla nave Diciotti

I migranti sulla nave Diciotti

Assisi (Perugia), 2 settembre 2018 - «Non possiamo restare insensibili di fronte a queste anime in cerca d’aiuto». Padre Enzo Fortunato, direttore della sala stampa della Sacro Convento di San Francesco ad Assisi, non ci ha pensato due volte. Ha ascoltato quelle anime, ed è andato a Rocca di Papa per dare una mano a chi stava gestendo la delicata situazione dei profughi sbarcati dalla Diciotti e arrivati in questo centro di accoglienza in attesa di ulteriore destinazione

Perché ha deciso di andare?

«Frequento questa comunità da diversi anni. Con loro abbiamo vissuto momenti di preghiera e di socialità. Sia a Rocca di Papa che ad Assisi. Non potevo restare immobile davanti a quello che stava accadendo, davanti al dramma di queste persone».

Quale è la situazione che vivono i profughi della Diciotti?

«Una condizione comune a tutti questi uomini e queste donne: l’incertezza per il futuro. Qualunque persona abbia avuto un figlio o un nipotino come me non poteva che commuoversi di fronte alle parole di una giovane madre di appena 22 anni che ci raccontava la sua tremenda storia. Merawit, questo il suo nome, è partita dal sud Sudan, perché aveva scoperto di aspettare un bambino e il marito, con quei quattro soldi che guadagnava, non sarebbe riuscito a mantenerli. Con in grembo suo figlio di appena un mese si incammina per l’Europa, non pensando che il suo viaggio si sarebbe prolungato così tanto. In Libia viene infatti rinchiusa dai trafficanti sotto terra con altri sciagurati e rimane lì per quasi un anno. Dà alla luce suo figlio al buio, senza igiene, a terra, mi ha ricordato Maria nella grotta del presepe, solo con le sue compagne di sventura ad aiutarla. Si accorge da subito che non aveva latte, il bambino piangeva, ma lei mangiava una sola volta al giorno pasta scondita, troppo poco per sopravvivere in due. Così quando gli chiedo quale era il nome di suo figlio così da affidarlo a san Francesco, lei mi risponde che non se l’era sentita di dargli un nome, perché sicura che lo avrebbe perso. E così è stato dopo due lunghi mesi di agonia, di pianti giorno e notte, tra le braccia di una madre impotente, il suo bambino senza un nome l’ha lasciata. Quando le abbiamo chiesto cosa vedeva nel futuro, ci ha risposto: “niente”».

Il dramma riguarda purtroppo migliaia di donne come Merawit, migliaia di uomini e bambini che soffrono. Cosa si può fare per aiutarli?

«Serve un cambio di mentalità. Quelle richieste d’aiuto, quelle lacrime hanno bagnato le nostre coscienze. Grazie alla generosità di 40 diocesi italiane questi profughi troveranno un momento di pace. Ma questi drammi devono indurre tutti noi a riflettere. Le migrazioni tra nord e sud del mondo andranno avanti a lungo, per anni. La percezione di questo fenomento, della netta dicotomia tra nord e sud del mondo, è che sia il frutto di un capitalismo avvelenatoe di una politica mondiale che prima o poi presenterà il conto. Per aiutare in concreto questi esseri umani serve soprattutto uno scatto di dignità da parte di tutti: degli uomini e della politica. Ritrovare l’umanità e riscoprire i nostri valori. Io stesso nell’andare ad aiutare queste persone, non avrei mai immaginato di trovarmi di fronte a tanta tenerezza e allo stesso tempo a tutta la barbarie di cui l’uomo è capace».