"Un marito ammazzato e nessun risarcimento"

Parla Stefania, la vedova del carabiniere Lucentini: «Quattro anni di martirio»

Stefania Leonardi, vedova di Emanuele Lucentini

Stefania Leonardi, vedova di Emanuele Lucentini

Foligno, 20 marzo 2019 - «Questi anni sono stati per me e per i familiari di Emanuele un martirio. A intervalli regolari siamo stati risucchiati dalla corrente della burocrazia legale con tutto ciò che ne consegue a livello emotivo ed economico, senza ricevere alcun risarcimento». Quattro anni dopo e tanto dolore in mezzo, e quando le motivazioni della Cassazione hanno messo la pietra tombale sulla vicenda giudiziaria avvallando la «volontarietà del gesto criminale» di Emanuele Armeni, l’ex appuntato scelto dell’Arma condannato a 18 anni di carcere, per Stefania Lucentini, la vedova del carabiniere ucciso in caserma, lo strazio non è ancora finito. Il delitto avvenne il 16 maggio del 2015 all’interno della caserma dei carabinieri di Foligno. Armeni e Lucentini erano appena rientrati dal turno in pattuglia di notte. Armeni sparò con un M12 alla testa del collega che morì poco dopo in ospedale.

Nelle primissime ore si ipotizzò – come riferito da Armeni – l’evento accidentale ma già il giorno dopo la procura di Spoleto iscrisse il carabiniere per omicidio volontario e lo fece arrestare due mesi dopo, una volta raccolti tutti gli elementi. In particolare una consulenza balistica che escluse il colpo accidentale o il malfunzionamento del mitragliatore. «Il caso era chiaro fin dall’inizio. Ci sono voluti 4 anni e migliaia di euro spesi per arrivare a definire una vicenda che da subito si era chiara: Emanuele Armeni ha ucciso, Emanuele Armeni voleva uccidere», racconta. Anzi «Emanuele Armeni doveva essere fermato prima». Nel corso dei processi è infatti emersa – «in un contesto caratterizzato da reticenza», scrivono i giudici –, l’inclinazione dell’appuntato a puntare le armi per gioco contro i colleghi. Non stavolta quando, anche secondo i Supremi giudici, si trattò di un delitto volontario, contraddistinto da «estrema gravità». Un delitto commesso «da un’appartenente all’Arma dei carabinieri in danno di un collega», valutazione che ha comportato anche l’esclusione delle attenuanti generiche.

Eppure «non abbiamo ricevuto alcun risarcimento da parte dell’assassino, così come stabilito dalla legge (il giudice aveva liquidato provvisionali immediatamente esecutive di circa 500mila euro, ndr) perché è nulla tenente, né dal fondo assicurativo perché decade ogni diritto nel caso ci sia un colpevole». Il riferimento è al Fondo assicurativo dell’Arma che prevede, al pari di altri enti istituzionali, un indennizzo nel caso si tratti di un evento colposo. Se Emanuele fosse stato ucciso «per sbaglio» dal collega, come da quest’ultimo sostenuto in tre gradi di giudizio, alla vedova e ai familiari sarebbe andato un risarcimento. Nel caso invece di gesto volontario è il condannato a dover pagare sia i familiari che le spese processuali.

«Oltre al dolore e alla grande fatica per reimpostare la vita – sono ancora le parole della vedova – ho subito anche l’umiliazione di sentirmi usata dai miei legali, non trovando nemmeno il supporto di fiducia, tutela e umanità che in questi casi è fondamentale». Ma Stefania e la famiglia Lucentini vogliono anche «ringraziare tutte le persone che ci sono vicine, amici, conoscenti e l’Arma dei carabinieri» che, in questi difficili anni, è stata loro accanto. Ora Stefania e la famiglia Lucentini pur consapevoli che «niente e nessuno potrà ridarci Emanuele» si sono affidati agli avvocati Giovanni Ranalli e Francesco Leti per tentare di ottenere un risarcimento.

Erika Pontini