Nell’ospedale dove è morto mio padre. Il medico: "Gli ho tenuto la mano"

Perugia, la testimonianza del nostro giornalista. Personale allo stremo, e ogni giorno la sofferenza cresce

La testimonianza del nostro cronista

La testimonianza del nostro cronista

Perugia, 11 novembre 2020 - Da marzo il Covid ha ucciso in Umbria 205 persone. Ogni giorno la situazione è drammatica. Michele Nucci, il collega che da anni racconta la sua terra per La Nazione, ha perso il padre dopo tre settimane di ricovero. Tre settimane durante le quali ha avuto modo di constatare la professionalità e l’impegno con cui il personale cerca di assistere i malati. E anche le difficoltà che si incontrano di fronte a un nemico subdolo come un virus. Giornate scandite da momenti precisi. L’attesa per la telefonata con cui informarsi delle condizioni del parente, la speranza, l’amarezza, il dolore per la perdita. Questo è il suo racconto.

Entro in reparto per riprendere gli effetti personali di mio padre. Mentre camminiamo lungo il corridoio la dottoressa si mette a piangere. "Che succede?" le chiedo timidamente. "Poco fa è morto un altro paziente. E ogni volta per noi è una sconfitta, un dolore atroce. Muore troppa gente, qui c’è qualcuno che non lo capisce o fa finta di non capirlo. Non comprende la tragicità di ciò che accade, la sofferenza delle persone". È ogni giorno così, a Perugia. Da più di un mese in tutta l’Umbria. Mio padre se ne è andato dopo tre settimane di ricovero. E alla fine non ce l’ha fatta. Da marzo qui il Covid ha ucciso lui e altre 205 persone.

"Siamo stanchi, demotivati, affranti" mi confessa uno dei medici di una delle cliniche dove è stato ricoverato il papà. Quando gli racconto che sono un giornalista si apre, si sfoga. E’ una storia che ho già sentito e letto tante volte mi dico mentre parla, ma è chiaro che sentirlo sulla mia pelle fa un altro effetto, mi arriva dentro, mi travolge, mi dà il senso profondo di ciò che accade ogni giorno in ospedale. E che la gente non capisce.

"E’ questo che ci fa arrabbiare: le persone non comprendono cosa è in grado di provocare questa malattia – dice – . Ci sentiamo lasciati soli. La scorsa primavera ci chiamavano eroi, angeli e non so cos’altro. Adesso ci sentiamo abbandonati". Ha ragione: si è spento quell’afflato, quella specie di carica adrenalinica che c’era in quei mesi, quell’“Andrà tutto bene” suona come un presagio di sventura ormai. E allora mi sento in colpa. E un po’ stupido. Perché anch’io – seppure sempre prudente e rispettoso di ogni regola – non capivo il dolore delle persone. Dei medici, degli infermieri, delle famiglie.

Ogni sera, quando io o i miei fratelli telefonavamo in reparto per avere notizie di papà, trovavamo dall’altra parte persone disponibili che avevano chiaro non solo il quadro clinico, ma anche quello emotivo di chi li stava chiamando. E’ successo con me e con le altre centinaia di familiari che ogni giorno telefonano con la speranza di ricevere una buona notizia. Che a volte non arriva, ma che con garbo, sensibilità e attenzione viene comunicata alla moglie, o ai figli. Mai una parola fuori luogo, mai una risposta sgarbata. Eppure potrebbe scapparci: nei reparti sono in pochi, fanno turni lunghissimi e a volte non riescono a seguire i pazienti come vorrebbero, rincorrono un’emergenza al minuto.

E non si risparmiano neanche i primari, generosi e pronti ad alzare il telefono a qualsiasi ora per dare una parola di conforto a chi resta a casa attaccato a una speranza. Gli infermieri hanno perso il ‘supporto’ dei familiari che stavano con i malati: fanno avanti e indietro dalle camere cento al volte al giorno, arrivano a sera che sono esausti. Se la prendono anche con la politica che "ha dormito nei mesi scorsi, che ora si fa bella dicendo che in posti in terapia intensiva non mancano. Il problema è che mancano i dottori". Per capire il clima che si respira in ospedale basta stare mezz’ora davanti al pronto soccorso, o affacciarsi sul parcheggio dove ora ci sono le tende dei militari: tensione e paura traspaiono sugli occhi della gente.

"Gli ho tenuto la mano quando lo abbiamo addormentato per intubarlo. Era un po’ preoccupato, ma gli ho detto che doveva pensare a una cosa bella. A un prato, a un bel tramonto. Mi ha risposto che stava pensando alle sue nipoti… ".

Questo mi racconta uno dei rianimatori che ha curato mio padre, che mi dice come sia importante addormentarsi con un pensiero sereno perché poi lo sarà anche il risveglio. E anche in lui c’è straordinaria competenza e un’umanità immensa: lo sento dal tono della voce, da un filo di emozione che traspare quando parla e che mi fa piangere e disperare. Il giorno prima che il papà se ne andasse per sempre, ho parlato di nuovo con questo medico e mi ha raccontato come il quadro fosse ancora peggiorato, ma in lui traspariva sempre un senso di serenità, una determinazione a voler insistere, una forza e un impegno in quello che faceva che mi ha fatto capire che lui e tutti quelli come lui stanno facendo l’impossibile, altro che storie.

"Gli sono stato vicino negli ultimi momenti più di quanto immagini" mi scrive una volta saputo che papà non ce l’aveva fatta. E oltre che con me, lui e quelli come lui, lo hanno fatto e lo stanno facendo ogni giorno. Con ogni paziente.