Cardella: "Lo Stato ha vinto. Nessuno è imprendibile"

L’ex procuratore generale di Perugia fu nel pool che indagò sulla strage di Capaci. "Spero che il modello Antimafia voluto da Falcone resti"

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di Donatella Miliani

"Quando ho sentito della cattura di Matteo Messina Denaro ieri mattina ho pensato: Giustizia è fatta. La mafia è brava a proteggere i suoi esponenti di spicco sul territorio ma lo Stato ha dimostrato di essere più bravo con una perseveranza tutt’altro che scontata, e li ha trovati, tutti". La voce di Fausto Cardella (ex procuratore generale di Perugia oggi in pensione con un curriculum di grandi inchieste e grandi processi alle spalle) tradisce una certa emozione. Lui, nel novembre del ’92, fu uno dei sostituti procuratori che accettarono di trasferirsi temporaeamente a Caltanissetta per indagare proprio sulle stragi di mafia che erano costate la vita prima a Giovanni Falcone, alla compagna Morvillo e agli agenti della scorta e poi a Paolo Borsellino.

"Questo è un giorno davvero importante – continua Cardella al telefono con La Nazione –. L’arresto di Messina Denaro, introvabile per trent’anni, è la dimostrazione che lo Stato non ha mollato nella lotta a Cosa Nostra nemmeno quando questa ha ’cambiato pelle’ accantonando le armi. Falcone stesso ammoniva sul fatto che quando quest’ultima non spara, l’attenzione cala. La cattura dell’ultimo dei superlatitanti è la prova che lo Stato ha lavorato bene".

Una mafia non più stragista ma camaleontica e ’nascosta’ per ’convivere’ con lo Stato sfidandolo su altri terreni piuttosto che su quello delle armi.

"Ecco perché è importante l’arresto di Messina Denaro. E’ frutto di un grande lavoro teso a prosciugare l’acqua dalla rete di connivenze che fino ad oggi avevano protetto il boss. Un modo per mettere fine anche anche alla stagione del complottismo, a quelle elucubrazioni su presunte protezioni ricevute che non hanno mai avuto alcuna prova. Ricostruzioni più o meno fantasiose girate per anni nel nostro Paese".

Gli investigatori italiani hanno dimostrato ancora una volta di essere tra i migliori al mondo.

"Esatto. Faccio i miei più sinceri complimenti alla Procura della Repubblica di Palermo, al procuratore Maurizio De Lucia e al procuratore aggiunto Paolo Guido, all’Arma dei Carabinieri e al comandante del Ros, Angelosanto, che hanno portato a termine l’operazione".

Lei sa bene quanto complicato sia lavorare sul territorio dove “si protegge“ il boss. Certo, pensare che per trent’anni il superlatitante è sempre stato a Palermo...

"Non è una cosa che deve stupire. I capimafia non potrebbero gestire il territorio allontanandosi. Non certo scappando all’estero. E poi in nessun altro luogo potrebbero godere della rete di protezione che hanno sul posto: amici, familiari e complici. Non a caso anche gli altri grandi capi, come Totò Riina e Bernardo Provenzano hanno vissuto la loro latitanza restando per così dire a casa".

L’arresto di Matteo Messina Denaro è un bel colpo insomma, sottolineato anche dall’applauso in strada dei siciliani.

"Era l’ultimo dei boss mafiosi di “prima grandezza“. La sua cattura dimostra che non ci sono criminali imprendibili, è un gran segnale. Detto questo va ricordata la necessità di non abbassare la guardia perché Cosa Nostra ha dimostrato di avere la capacità di rigenerarsi anche nelle sue leadership tessendo inoltre relazioni con le altre organizzazioni criminali come la ’ndrangheta o la camorra".

Falcone ha segnato una strada, seguirla ancora oggi porta a obiettivi eccezionali. Che ricordo ha lei del magistrato e dell’indagine preliminare sulla sua morte?

"Ho conosciuto Falcone personalmente, gli dovevo anche un pranzo... Ma l’ho conosciuto poi molto di più, purtroppo, dopo, indagando sulla sua morte. Quell’indagine è stata indubbiamente l’esperienza più formativa della mia vita professionale ma anche umana. Ricordo ancora quel 2 novembre del 1992 a Caltanissetta. Ci arrivai per effetto di una legge fortemente voluta da Falcone stesso, che non aveva certo immaginato che sarebbe stata applicata per la prima volta proprio per il suo omicidio. Lui aveva voluto una Direzione nazionale antimafia e delle procure distrettuali antimafia in tutta Italia con dei procuratori e degli investigatori specializzati che, in caso di necessità, avrebbero potuto essere distaccati in altre procure del Paese per assicurare le indagini. Riteneva l’avere delle competenze specifiche una necessità fondamentale nella lotta alla criminalità organizzata. Visto che siamo in tempi in cui si parla di riforme, spero che almeno questo, quel metodo di indagine, resti".

Fu difficile scegliere di andare a Caltanissetta?

"No. È stata senza dubbio l’esperienza professionale più formativa. Il pool era composto dal procuratore Tinebra, da Ilda Bocassini, me, Giordano, Petralia e Vaccara, ma gli altri si occupavano anche di un’altra indagine sulla mafia nissena. Ilda e io, invece, a tempo pieno sulle stragi".

Ha mai avuto paura?

"Non ho alcuna vergogna ad ammetterlo ma di per sé la paura non è negativa, aiuta a ragionare meglio, a meno che non se ne venga paralizzati. E comunque la mia fu esorcizzata dall’Arma dei carabinieri, allora e un po’ per tutta la vita professionale. In una certa misura continua ad essere così anche oggi".