Firenze, 5 maggio 2011 - AVEVA vinto tante battaglie. Perfino quella contro i banditi sardi e i personaggi legati alle più temibili famiglie mafiose che lo sequestrarono e gli tagliarono lembi delle orecchie, ventidue anni fa. Ma ieri Dante Belardinelli si è dovuto arrendere al «brutto male» che se l’è portato via, a 87 anni. Dopo una vita intensissima, durante la quale aveva miscelato gioie e colpi duri.

 


Nell’ultima apparizione pubblica, il 9 settembre del 2010, in piazza di Cestello, dove San Frediano gli consegnò il «Torrino d’oro», aveva voluto sfogarsi col cronista: «Lo sa quale fu il momento peggiore del mio rapimento? Quando chi mi aveva sequestrato lesse che ero ‘il re del caffè’: quel titolo sul giornale fece salire il prezzo del riscatto e le mie tribolazioni».

 


Venne rapito il 30 maggio del 1989. La moglie Mimma, sposata in seconde nozze, e di una trentina d’anni più giovane, si vide recapitare il macabro e malvagio «avvertimento»: appunto pezzetti delle orecchie. Vertiginose le richieste di riscatto. Ma gli inquirenti non abbandonarono mai la linea dell’intransigenza. Il 29 luglio del 1989, nel tratto Fiano-San Cesareo dell’Autosole, avvenne una storica sparatoria fra la polizia e la banda dei rapitori. Furono sparati cento colpi in pochi secondi. Tre uomini dei Nocs restarono gravemente feriti, ma risposero al fuoco uccidendo Bernardino Olzai e Giovanni Floris. Croce Simonetta, uno dei capi, venne ferito e morì due mesi dopo. Diego Olzai fu l’unico a cavarsela.
Un giudice si assunse la responsabilità dell’operazione: Pier Luigi Vigna. Che nella stanza del capo della mobile, pressato dai giornalisti che chiedevano conto di quel Far West alle porte di Roma, sbottò: «Basta col pagamento dei riscatti. E’ ora di finirla, non bisogna permettere a questi signori di reinvestire risorse per alimentare altri crimini. Belardinelli? Non è in pericolo più di prima. Anzi, se non sono irresponsabili dovrebbero liberarlo».

 


Il 3 agosto, dimagrito e con la barba lunga, Dante Belardinelli venne liberato. Un anno dopo l’inchiesta sul rapimento si concluse con il rinvio a giudizio di cinque persone: Pietrino Mongile, Costantino Pintore, Antonio Angelo Pinna, Diego Olzai, Giuseppe Medde. Tutti sardi. Secondo la ricostruzione dei pubblici ministeri, appunto Pier Luigi Vigna e Michele Polvani, il Mongile e il Pinna furono i carcerieri: che avevano tenuto Belardinelli prigioniero in un fondo a Manciano, in provincia di Grosseto.

 


Nato a Castiglion del Lago, provincia di Perugia, Belardinelli aveva cominciato a lavorare come cassiere della Bnl. Non se la passava male, ma la vita da impiegato non faceva per lui. Fu un amico a proporgli una specie di sfida. Non riusciva a vendere una grossa partita di caffè. «Provaci tu», gli disse. Belardinelli ci provò e di caffè invenduto non ne rimase nemmeno un chicco. La Jolly Caffè, fondata nel 1953, prosperò rapidamente. Lui lo chiamavano «il ragioniere». Approdò perfino nel consiglio direttivo della Fiorentina: da «ragioniere» cercò di razionalizzare il calcio, proponendo ai giocatori di partecipare agli «utili». Non ebbe successo.
 

 

Dopo il rapimento appoggiò il disegno di legge per il blocco dei beni da parte della magistratura. Ciò fece perdere ai sequestri di persona il sapore del business.
Belardinelli ha continuato a lavorare fino in fondo. Stava dietro la scrivania col sigaro. I ricordi non lo tormentavano più. Ogni tanto sentiva il suo amico Vigna. Al quale raccontava anche del nuovo, imbattibile sequestratore: il male che se l’è portato via.