Mps: troppi rilanci, il matrimonio non s’ha da fare

Per UniCredit le condizioni note dal 29 luglio. Ma il Ministero non poteva accettare di sborsare 7 miliardi solo per i pezzi buoni di Mps

Andrea Orcel, Ceo di UniCredit

Andrea Orcel, Ceo di UniCredit

Siena, 24 ottobre 2021 - L’ultimo dubbio era se sancire la rottura della trattativa con un comunicato congiunto UniCredit e Ministero dell’Economia, o lasciare a piazza Gae Aulenti l’incombenza di far calare il sipario. La sostanza, però, non cambiava di una virgola. UniCredit si ritira dall’affare Monte dei Paschi, non acquisirà "un perimetro definito di attività" del gruppo senese, in cambio di 7 miliardi di aumento di capitale, comprensivo degli sconti fiscali da 2,5 miliardi. Troppo distanti le posizioni con il Mef, le condizioni poste dall’ad Andrea Orcel erano inaccettabili per il Governo e per la politica. E così, dopo quasi due mesi di verifiche sui conti, di una due diligence effettuata dal team guidato da Andrea Maffezzoni, che ha spulciato i bilanci del Monte dei Paschi, esplorandone le pieghe più recondite, la partita è finita, il giocatore principale si è alzato dal tavolo. Il piatto, nel senso del 64% di Rocca Salimbeni in mano al Tesoro, è rimasto lì, in attesa di altri giocatori pronti a sfruttare le fiches che il Governo ha puntato nella partita.

Da almeno una settimana la trattativa si era arenata. La due diligence è finita prima del 10 settembre, per UniCredit la ’neutralità sul capitale’ dell’operazione Mps, significava interpretare in modo estensivo le condizioni poste nella nota del 29 luglio. Il perimetro definito di Andrea Orcel, quello che gli azionisti forti di UniCredit, da BlackRock a Del Vecchio, da Caltagirone a Fondazione CariVerona gli chiedevano per far crescere il valore del titolo, era composto da 1.100 sportelli del Monte nel Centro Nord, il 77% della rete e la stragrande maggioranza dei 3,9 milioni di clienti, degli 80 miliardi di euro di crediti e degli 87 miliardi di depositi, più la banca on line Widiba. Per acquisire quelle filiali, il Ministero dell’Economia doveva immettere 7 miliardi di capitale, compresi gli incentivi fiscali, necessari per garantire anche la gestione degli oltre 7 mila esuberi previsti, con il fondo di solidarietà. Il resto erano problemi del Tesoro.

Ed è proprio ’il resto’ che ha fatto saltare tutto. Il futuro delle partecipate, da Mps Capital Services a Leasing&Factoring, del Consorzio operativo, della direzione generale con 2.500 dipendenti sparsi in sette sedi, non solo a Siena, del marchio (poi sparito dai radar della trattativa), dei 300 sportelli che dovrebbe accollarsi Mediocredito Centrale, dei crediti non performanti che erano lievitati, dopo la verifica sui conti, da 4,5 miliardi a oltre 15, per i fidi a settori a rischio come commercio e turismo, dei 6 miliardi di rischi legali, rappresentava un pacco impossibile da gestire con ’bad company’ e società finanziarie dello Stato. Quell’affare non sarebbe stato votato da nessuno in Parlamento. E anche nella compagine governativa sarebbe stato bocciato. Meglio chiudere qui i giochi, anche prima del 27 ottobre. Il tango è durato abbastanza.