L’epica della Festa da Palazzeschi a Brera

In un secolo l’evoluzione degli inviati dei giornali. L’epinicio su Topolone per il Nicchio, la benedizione del barbero per la Mazzucco

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di Massimo Biliorsi

Come è cambiato nella carta stampata il modo di raccontare il Palio. Ecco, nelle vesti di inviato, cosa scriveva Aldo Palazzeschi nel 1938: "Grida, rampogne, minacce… intrighi, tradimenti… qualche bastonata che vola e che cade, la pelle un po’ ammaccata d’un fantino, due gocce di sangue magari… ma su tutto un sorriso, io pensavo al di’ seguente, dopo una scena di colore come non vidi mai più bella, mentre il treno correva portandomi lontano da quelle mura che un miracolo conservava ai nostri occhi, e dove i più schietti parlatori d’italiano giocano con tanta grazia alla discordia, astutamente solleticando l’istinto profondo che dorme nell’uomo o sonnecchia. E pensavo a quando la discordia non era un gioco fra quelle mura, ma vera, insana e insanabile, barbara e spietata. E volava il pensiero, favorito dalla corsa, forse più del treno".

La Festa ha sempre spinto al racconto epico: pochi si sono sottratti a questa regola. Negli anni sessanta si arriva a toni altissimi di retorica, ecco Folco Tempesti: "Sono i giorni del Palio: è la sagra della storia. Negli androni dei palazzi, nei vicoli ombrosi, presso le fontane azzurre, uomini tornati dal tempo fanno congiura e sommosse. Soldati in vedetta stanno presso le porte quadrate, sulle mura merlate, dinanzi alle chiese dai grandi rosoni fiammanti nel sole. Dall’alto della torre la campana risuona lenta e possente, e richiama all’arengo. Ritornano i podestà di città e di castella, i signori del Concistoro, giudici di Balìa, i provveditori di Biccherna, i notari del Caleffo, i Camerlenghi del Comune, i Priori irrequieti e i torvi Capitani del popolo. Ritornano i guerrieri, i cavalieri crociati: vestiti di ferro e di oro, portanti l’elmo, lo scudo, il silicio, armati di spada, di lancia di croce. Nelle chiese dai rosoni fiammanti le donne in ginocchio pregano ancora come nei giorni delle fiere battaglie".

Ci voleva Gianni Brera, per il Numero Unico del Nicchio del 1969 ad offrire bellezza descrittiva ma scevra di ogni inutile orpello nell’epinicio "Ah, Topolone diavolo saraceno: "Il perimetro della conchiglia è demoniaca pista a carosello che in un baleno avvampa e si spegne.") fino a terminare così: "Custodi d’un sogno concretato dal fuoco sul colle che scelse altra materna lupa, così i senesi dividono l’odio e l’amore come il pane e il fiele. Intanto la storia nostra cieca padrona fa correre palii in contrade sempre più ostili e lontane. Ahimé la patria si eredita non si sceglie se non dopo averla perduta, ma chi ha gambe e cuore non può vegetare da salice: qui dunque a mia volta chiederò una contrada, una parte che m’illuda almeno di vivere ancora e sempre da uomo".

Giornalisti che hanno capito il senso della profondità della festa. Anche oggi rincorrono sempre nuove emozioni e talvolta, anche inconsapevolmente, vestono gli abiti dello scrittore prestato alla cronaca. Ed allora ci sembra giusto chiudere con le parole di Melania Mazzucco sulla benedizione del barbero: "Il cavallo non si è mai chiesto cosa si vince. Cosa si perde. Qual è la posta in Palio. E’ probabile che non capisca il latino e che non sappia nemmeno cosa è un crocifisso. Ma il cavallo non sa di non saperlo. Nessuno sa cosa sognano i cavalli".