Io, i bar e il passaporto verde di un altro Un giorno da No pass fra spritz e caffè al tavolo

Il nostro viaggio in quattordici locali dentro e fuori dal centro per capire quanto le regole vengano rispettate. Cosa abbiamo scoperto

Green pass base, rafforzato, supergreen pass, green pass di un altro. No, non è un Dpcm dell’ultima ora, ma è quello che ho utilizzato trasformandomi per un giorno in una no vax, no pass. Ma con tanta voglia di fare colazioni, consumazioni e aperitivo al bar, sgattaiolando fra i divieti. L’obiettivo? Capire quanto la norma che impone a bar e ristoratori il controllo del passaporto vaccinale sia applicata. Ma soprattutto quando sia difficile per i gestori fare da controllori tra caffè da servire, gli ordini dei clienti che fioccano di prima mattina e la pressione del lavoro che si mangia ogni secondo libero. Così messo in tasca il mio di certificato verde, mi procuro quello di un amico.

Come prima cosa decido di andare a fare colazione nel primo bar che incontro, zona nord. Entro, mi accorgo che chiedono il green pass. A me però non lo hanno chiesto, né prima né durante la consumazione. Resto al tavolo per un po’, sorseggio il mio cappuccino. Entra un altro cliente, a lui chiedono il green pass. Così decido di uscire ed entrare in un bar vicino. E stavolta utilizzare il trucchetto di molti No Pass: sfoderare un passaporto verde, sì. Ma non il mio. Quello di un amico, uomo.

La scansione della certificazione viene fatta correttamente. Il fatto che sullo schermo compaia il nome di un uomo e io sia una donna, non vien notato. E la colazione è servita. Non contenta vado in un bar avvicinando al centro, mi chiedono solo se ho il green pass con me, ma non c’è bisogno di mostrarglielo. Io però glielo mostro, l’applicazione lo registra e intanto addento la mia brioche, gustata grazie al green pass altrui. Il viaggio prosegue con un caffè amaro sempre fuori dalle mura, visto che la certificazione verde non mi viene nemmeno richiesta. Infilata l’uscita con stavolta un decaffeinato a scaldare la pancia, mi dirigo verso Siena nord. È l’ora dell’aperitivo, anche per un’aspirante No pass. La richiesta del passaporto all’ingresso viene fatta regolarmente. E io glielo mostro. Sto per dirigermi al tavolo ma vengo fermata.

"C’è un nome da uomo" mi dice la barista. È il primo della decina di bar passati in rassegna finora che lo nota. "Scusi, è quello di mio fratello", rispondo. E provvedo a mostrargli il mio. Poi mi dirigo in centro, è il momento di fare pranzo. Mi fermo al primo bar, è affollato, mi siedo senza aver mostrato la certificazione, il pranzo è servito. Il green pass di un uomo, in tasca a una donna, funziona (purtroppo) alla grande. Una smagliatura nella rete dei controlli affidata ai singoli esercenti che potrebbe essere bucata decine di volte al giorno. Proseguo il mio giro. Vado in tre bar e in tutti e tre mostro il green pass farlocco.

Dalle 10 del mattino alle 14 ho girato per bar senza mai mostrare il mio certificato, ma quello di un altro. Solo in una attività me lo hanno fatto notare In tre bar non mi è stato chiesto di mostrarlo, mentre nelle altre attività le regole sono state rispettate, il green pass è stato regolarmente richiesto e io l’ho mostrato. Nessun rischio multa per quelle attività, ma quello non era il mio green pass. E’ stato quindi più semplice del previsto passare una giornata da No pass. La maggior parte degli esercenti ha svolto un controllo corretto. Che si regge unicamente sul senso civico di ciascuno di noi.

Simona Sassetti