Il pane quotidiano diventa un lusso "Prezzi fermi, ma guadagni azzerati"

Eleonora Capitanelli, titolare dei nove panifici Sclavi di Siena alle prese con l’impennata delle spese "Cuociamo in forni a gas, in ogni punto vendita 8mila euro in più. Non possiamo ricaricarli sui clienti"

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Il pane quotidiano soffre sotto il peso della guerra, anzi dei costi del conflitto Russia-Ucraina, che con effetto domino si sta riversando sul mercato di largo consumo, anche quello alimentare. "Prima il Covid, poi la guerra e questo incontrollato rincaro di tutto, dall’energia alle materie prime. Per il momento abbiamo tagliato il margine di guadagno, pur di non toccare il prezzo, ma non so quanto si possa andare avanti. La speranza è che la straordinarietà del momento finisca. Non c’è altra via d’uscita, per l’impresa, il mercato e il consumatore" dice Eleonora Capitanelli, titolare dei forni Sclavi, ben nove punti vendita tutti a Siena, che sfornano 10 quintali di pane al giorno per la vendita diretta e la grande distribuzione.

Siamo già al ‘caro pane’? Cosa sta accadendo?

"Il pane comune, con farina semplice, oscilla fra 2,70 e 3 euro al chilo. I prezzi sono ancora fermi, nonostante l’ondata di aumenti, dalla luce al gas e le materie prime. Tutto è aumentato. Nella gestione di un’azienda, il panificio come qualsiasi altra, ci sono variabili che l’imprenditore può gestire e altre che invece non dipendono dalla sua gestione, i costi fissi. Al momento abbiamo azzerato il margine di guadagno, non andando a toccare il prezzo per il cliente’".

Quali sono le voci di spesa che trainano i rincari?

"Il gas è aumentato del 300 per cento, la luce del 200 per cento. Ed entrambe queste voci pesano: il pane si cuoce in forni a gas. Oggi il singolo punto vendita spende 8-9mila euro al mese, prima erano mille; nella produzione i costi sono ancora maggiori. Da gennaio a giugno di quest’anno, sei mesi, abbiamo già pagato in bollette (fra luce e gas) come per tutto il 2021. E non rientriamo nelle imprese energivore, quindi il credito di imposta è irrisorio, solo il 15 per cento. La differenza fra una fornace che fa ceramica e un’azienda panificatrice è che loro possono chiudere per un periodo, mandano i dipendenti in cassa integrazione e risparmiano; noi non possiamo permettercelo e far mancare il pane quotidiano".

Ha pensato di chiudere qualche punto vendita o fare orari ridotti?

"Se chiudi una settimana hai un mancato incasso che ti porti dietro tutto l’anno, una zavorra e non si recupera. Il forno sta aperto dalla mattina fino alle otto di sera, non puoi far mancare il pane a metà pomeriggio. Allora posso gestire la produzione, evitare lo spreco, l’avanzo. Chiudere non ci farebbe risparmiare".

Riuscirà a non aumentare il prezzo? Fino a quando?

"L’obiettivo per ora è non gravare sul cliente e sul personale; ci sono almeno 50 famiglie che contano sul lavoro nei forni Sclavi. Per ora azzeriamo il margine di profitto, ma credo che, a lungo andare, con l’arrivo delle perdite tanti decideranno di chiudere. La speranza è che a livello europeo si prendano provvedimenti e l’aumento incontrollato di oggi si fermi, almeno a livelli accettabili: se non si aiutano le aziende, crolla l’intero mercato, fino al consumatore".

Eppure il costo del grano non è aumentato.

"Gli agricoltori lavorano, faticano a un prezzo irrisorio. La materia prima all’origine non costa di più, ma nel proseguo nella filiera si trovano gli aumenti: il molino ad esempio consuma energia e la lavorazione del grano costa di più, così come il trasporto".

Ha notato se consumiamo meno pane?

"Il pane è bene primario ed è anche l’unico alimento che con minima spesa sfama. Continuiamo a comprarlo: anzi oggi compriamo un chilo di pane o un pacco di pasta più che un chilo di carne. Per questo, anche se non c’è margine, non possiamo toccare il prezzo del pane. Avevo deciso di non toccare nemmeno la colazione, invece il caffè al bar l’abbiamo amentato di 10 centesimi, a 1,10 euro, e lo stesso il cornetto".

Paola Tomassoni