Architetto morto, la moglie: "Era disperato, non sono riuscita a salvarlo dall'abisso"

Il caso dell'uomo trovato cadavere. Si sarebbe sparato

L'architetto con la moglie

L'architetto con la moglie

Sarzana, 24 ottobre 2017 -  «Era disperato Stefano, soffriva moltissimo e non sono riuscita a salvarlo dall’abisso». E’ straziata Prisca Gianfranchi, moglie dell'architetto trovato morto sabato notte. Dolore si mescola a dolore, lo sconforto per il passato si intreccia all’angoscia per il domani, e le lacrime non riescono a lavare niente.

«Mi arrivano voci assurde, noi che lo amiamo lo sappiamo quanto soffriva, io lo amavo e lo so fino a che punto poteva arrivare quel giorno – ripete disperata – l’ho detto subito alla polizia, so che l’autopsia chiarirà. Non c’erano problemi seri, lo aiutavo sul lavoro, lo sapevo. Stefano non aveva appuntamento con nessuno, se fosse stato un altro momento storico della sua vita avrei detto che sì, aveva visto qualcuno che aggrediva qualcuno ed è intervenuto per salvarlo. Ma quello che era successo sabato, le dinamiche... ora purtroppo mi è tutto chiaro. La depressione è come un tumore, stava smettendo una cura blanda ed è andato in tilt. Non ha capito più niente, era proprio disperato non aveva piu voglia di vivere, piangeva. Voglio staccare la spina mi ha detto quel giorno, voglio spengere l’interrutore, non ce la faccio più. E piangeva».

Ricostruisce tutto Prisca mentre ancora le fantasie dalla città corrono insieme all’incredulità e all’angoscia. «Sabato è stato ore a parlare al telefono con la sua psicoterapeuta, si è svegliato all’alba in lacrime – ricorda, provando a spiegare a una città che fa mille ipotesi –. Dicono delle cose sbagliate di lui, Stefano era una persona pulita, non ha mai avuto niente, non aveva nessun conto in sospeso. Tutti gli anni in questa stagione andava in depressione. Era disperato ma lo nascondeva: lo sapevamo solo noi. Non lo dava a vedere, negli ultimi due anni si era spento, era cambiato tantissimo. Con gli amici scherzava, tirava fuori il suo lato buffonesco, ma chi è stato vicino a lui in questi ultimi tempi lo sapeva. Si vedeva lo sguardo spento».

«Era disperato sabato ma ha voluto comunque portare la bimba al Cavallino Matto. L’ho visto che era disperato, ma ha voluto andare: glielo aveva promesso, mi ha detto. E’ stato il suo ultimo atto d’amore, forse anche uccidersi è stato un atto d’amore perchè non riusciva più a superare la malattia e non voleva curarsi – dice Prisca – non voleva diventare dipendente dai farmaci. L’ho detto subito anche alla polizia, ma era è stata una cosa surreale, non riuscivo neppure a sapere come era morto». STEFANO Di Negro era tornato a casa con la figlia e un’amichetta dopo un pomeriggio al parco giochi.

«Devo andare dai miei, mi ha detto – racconta la moglie –. Ero terrorizzata, c’era anche un’altra bimba, altrimenti avrei potuto seguirlo. Quando ho visto che non tornava ho cominciato a mandargli messaggi ma lui non mi rispondeva. Vista la situazione critica di questi ultimi mesi, continuava a ripetermi che voleva stare un po’ per conto suo, ho continuato ad aspettarlo... arriverà, arriverà. Ho mandato messaggi anche ai suoi amici: vorrà mica farsi del male, ho chiesto, tutti a dirmi ma no, non essere paranoica, lascialo un po’ perdere, magari avrà avuto voglia di farsi un giro».

Ma da quel giro Stefano non è più tornato e verso mezzanotte è stata la polizia a suonare al campanello della loro casa in via del Murello. Restano in sospeso dei “se” che non troveranno risposta.

«Sapevo che non c’era niente di urgente per cui non potesse fermarsi a cena con noi. Era tutto pronto – ricorda Prisca – Ma lui ha detto “tanto non ho fame”. Erano due o tre giorni che non riusciva a mangiare. Quante volte ho chiesto che si facesse qualcosa per aiutarlo, minimizzavano tutti perchè lui minimizzava con gli altri, ma la profondità del suo dolore la so solo io che ci vivevo insieme, io e forse la sua analista da cui va da dieci anni. Stefano era una persona tormentata, ma con gli amici queste cose le nascondeva, mostrava solo l’aspetto burlone, riusciva sempre a sorridere». Sorridente tutti lo ricordano, increduli, sempre pronto per un caffè, una battuta, una battaglia di principio, a difendere l’etica che aveva guidato gli affetti e il lavoro. Ma troppo fragile per difendere la sua vita.