Truffa camici: bloccati 43 milioni di euro

Il Riesame rigetta la richiesta di dissequestro di soldi e beni di cinque indagati coinvolti nell’inchiesta sulle tute per l’emergenza sanitaria

Restano sotto sequestro i 43 milioni bloccati dall’inchiesta della Procura di Prato che ha portato a galla una maxi truffa sulle forniture di tute e camici per la gestione dell’emergenza Covid cuciti nei vari pronto moda cinesi sfruttando manodopera a nero e clandestina. Il tribunale di Prato, nella sua funzione di tribunale del Riesame, ha rigettato la richiesta di dissequestro presentata dai legali di cinque dei sedici indagati. E’ l’ennesima conferma all’ipotesi accusatoria ricostruita dalle complesse indagini dei sostituti procuratori Lorenzo Boscagli e Lorenzo Gestri. I beni e i soldi su cui la squadra mobile – che segue le indagini – è riuscita fino a ora a mettere le mani restano dunque bloccati in attesa di chiarire le posizioni degli indagati. Sempre il Riesame aveva rigettato, a luglio, la richiesta di attenuazione delle misure cautelari confermando i "gravi indizi di colpevolezza".

L’inchiesta della Procura di Prato ha portato a galla la presunta maxi truffa che il consorzio Gap – gestito di fatto dai fratelli Massimiliano e Samuele Piccolo, quest’ultimo ex vice presidente del consiglio comunale romano per Fdl e indagato per finanziamento illecito ai partiti – avrebbe messo in piedi per accaparrarsi due commesse milionarie da parte del commissario straordinario per l’emergenza Covid e dell’Asl 2 di Roma per la realizzazione di milioni di tute protettive e camici che sarebbero andati a medici e infermieri che in quel momento si trovavano alle prese con le ondate del Covid.

L’inchiesta ha portato a emettere sedici misure cautelari (di cui quattro in carcere e sei ai domiciliari, oltre a sei misure interdittive) e a indagare 34 persone coinvolte a vario titolo nella realizzazione dei presidi medici violando le clausole (che il lavoro non fosse dato in sub appalto e che fosse rigorosamente Made in Italy) imposte dal contratto che "Invitalia" (società partecipata del Ministero dell’Economia) aveva stipulato con Gap. Le indagini hanno scoperchiato un vaso di Pandora sul consorzio romano che, in realtà, non aveva le carte in regola per poter vincere qull’appalto e che per produrre i milioni di camici e tute si era avvalso della collaborazione di una miriade di aziende, soprattutto cinesi con sede a Prato, che sfruttavano gli operai, molti clandestini e in grave stato di indigenza. A mettere in moto l’inchiesta, fu la denuncia di un operaio straniero che lamentava le gravi condizioni in cui era costretto a lavorare per paghe da fame.

Laura Natoli