Roberta e Rodolfo Betti, va in scena l’amicizia L’ironia e l’acume dei due cantori di Prato

Non erano parenti, nonostante il cognome, ma legati dall’amore per la città. Lei, ‘paladina’ del Politeama, lui autore di teatro e scrittore

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È il turno di Rodolfo e Roberta Betti, i cantori di Prato alla loro maniera dolce e scanzonata. Accompagnati dalle foto di Ranfagni, ecco una nuova tappa della nostra rubrica ‘Come eravamo’ in cui si sono avvicendati: Edoardo Nesi, il Lungobisenzio, Filettole,la goliardia, le botteghe del centro, il ristorante Baghino, Silvio Pugi, Roberto Giovannini, la redazione pratese de La Nazione, Pietro Fiordelli, il tessile, Giorgio Vestri, il teatro Metastasio, Lohengrin Landini, il Politeama, il campanilismo Prato Firenze Pistoia, Misoduli.

di Roberto Baldi

Portavano un cognome, Betti, popolare a Prato, ma erano singolari in tutto: Roberta e Rodolfo Betti, nemmeno lontani parenti, avevano in comune l’amore per la città, che cantavano alla loro maniera scanzonata e dolce. Roberta con il pragmatismo delle realizzazioni; Rodolfo con il gusto di fotografarne il divenire. In questo diversi perché la differenza è l’inizio della sinergia. Si amavano e litigavano nelle costruzioni di spettacoli e canzoni, ma si stimavano a vicenda con l’intento comune di dare un respiro anche artistico alla città delle mille ciminiere. Ai loro funerali, avvenuti a poca distanza l’uno dall’altro, c’era tutta Prato che per loro era stata una ragione di crescita artistica e di godimento partecipato agli altri. Roberta era riuscita nell’impresa di ridare ai pratesi il Politeama attraverso il tenace coinvolgimento di tutta la città, restituendo al complesso di via Garibaldi una vita luminosa come le stelle che s’intravedono dalla prestigiosa cupola apribile del teatro, dopo che il 7 novembre del 1985 sui titoli di coda dell’ ultimo film si erano accese le luci in sala, si erano spenti i riflettori, la macchina da proiezione ammutoliva, mentre il pubblico sciamava in via Garibaldi con il portone che si chiudeva alle spalle per riaprirsi nove anni dopo grazie a una vita di affetto e di passione civile creata dall’entusiasmo e dalla simpatia di Roberta. "Roberta Betti: il Politeama è lei", scrisse l’attore Alessandro Benvenuti. E il presentatore Carlo Conti: "La splendida storia creata da Roberta Betti ci insegna che bisogna sempre credere in quello che si fa. Al Politeama è come se le pareti parlassero, perché respirano il vissuto della città". E Miranda Martino: "Spero che molti teatri prendano ad esempio la Public Company del Politeama voluta dall’impareggiabile Roberta Betti". E via di seguito in un profluvio di elogi che davano una dimensione grande a questa signora semplice, dai modi spicci e genuini.

Nella storia dell’amore per Prato un posto tutto particolare lo ha, insieme a Roberta, Rodolfo Betti che sabato alle 21 proprio all’interno della casa di entrambi, il teatro Politeama, vedrà proposta una rievocazione dei tempi fatati , dal titolo "Betti una sera a cena" attraverso "Camici miei", l’associazione di medici nata da una costola del mitico Gam (gruppo autonomo di medicina creato nelle soffitte dell’ospedale di Prato, partorendo tal Francesco Nuti, biologo mancato oltre che attore straripante di simpatia), in una serie di sketcs, recitati con vena artistica affinatasi nel tempo, proprio attraverso l’insegnamento dell’immarcescibile Rodolfo, con sempiterna ironia, perché la vita è cosa troppo importante per poterla sopportare sempre seriamente, come ebbe a scrivere Oscar Wilde. Era anche il motore delle riviste del Buzzi. Forniva sempre una cartolina di Prato, cantata e descritta in mille modi. Quella Prato, per dirla con una delle sue simpatiche filastrocche, "distesa dalle Fontanelle alla Retaia quel monte che quando gliè coperto si dice che il tempo fa culaia".

Mi aveva sorriso con gli occhi l’ultima volta che ero andato a trovarlo, mentre la moglie Elita per sollecitarne il risveglio gli faceva risuonare la canzone "Se Prato la un ci fosse", scritta a due mani con l’amica di sempre Roberta . Non aveva più il piglio deciso dell’arredatore, scrittore, cantore, pratese fino all’osso, commediografo che strapazzava e creava gli attori dal nulla. Il motore del sempreverde era ormai in avaria: un fiore piegato sullo stelo, che emanava più profumo alla sera. Aveva esorcizzato a suo modo la commedia della vita con un divenire continuo e non si era pentito mai di nulla tranne dei peccati non commessi, come diceva lui, anche quando il male fisico era lì a ricordarci quanto sia sottile il confine tra felicità e tristezza, consapevole che tardava a passare la tempesta e che occorreva comunque continuare a ballare sotto la pioggia del tramonto. "L’adulto non si avvicina a una pozzanghera per paura d’insudiciarsi – mi aveva detto con una delle sue ultime espressioni che erano incanto – il bambino invece riesce a vederci anche il cielo. Io vedo ancora un po’ di cielo". Era in un letto a cancelli. Vedeva ancora il cielo, il poeta del vivere.