Orti cinesi, coltivazioni fuori controllo e regole aggirate

Gli agricoltori pratesi chiedono di essere difesi. La nostra inchiesta

Orti cinesi

Orti cinesi

Prato, 25 novembre 2018 - Lavorano come formiche. Brulicanti, invisibili, instancabili. E silenziose. In mezzo ai fazzolettoni di terra, ritagliati tra i caseggiati di periferia, da qualche tempo centinaia di cinesi si sono accorti che – con la tenacia di sempre e qualche rotolo di banconote in tasca – tingere di verde i loro pollici era impresa fattibile. E che il business, l’ennesimo, era dietro l’angolo. Cavolfiori, fagiolini, melanzane e pomodori sono spuntati così, in pochi anni, come pezzi di Lego, in mezzo alle case di San Giorgio a Colonica, di Tavola, di Galciana, in vecchi appezzamenti di campagna abbandonati, che hanno ripreso all’improvviso a germogliare.

L’algoritmo orientale che ha ‘mangiato’ negli anni una fetta enorme della torta tessile pratese sembra quindi funzionare anche tra le zolle di terra: testa bassa tutto il giorno e banchi dei mercati che si riempiono di ortaggi venduti a prezzi decisamente concorrenziali rispetto a quelli proposti dagli agricoltori pratesi.

Ma questa Chinatown in modalità rurale, che accantona i telai e scopre la passione per la zappa, è un macedonia di luci e ombre, in cui le seconde sembrano essere molte più delle prime, com’è emerso anche nel corso di una recente inchiesta di ‘Viva l’Italia, oggi e domani’ andata in onda giovedì su Rete 4.

Andiamo a naso, e non è un modo di dire. Dalle distese coltivate dagli orientali non di rado si alzano, impastati di terra fresca, fumi e odori forti. Di quelli che fanno frizzare le narici. I cittadini battono i pugni, gli agricoltori locali schiumano rabbia.

«Mentre noi siamo tenuti a mantenere i nostri ettari di terra in condizioni perfette i cinesi fanno tutto quello che gli pare», si sfoga Paolo Colzi, presidente della Coldiretti provinciale. «Un esempio? Bruciano i teli delle serre, i contenitori dei diserbanti, le taniche di plastica e i sacchi di concime. Perché smaltirli ha un costo e loro preferiscono risparmiare...». Dove invece i cinesi non sembrano badare a spese è nell’affitto dei poderi.

"A me affittare un ettaro di terreno costa dai 100 ai 200 euro l’anno – continua Colzi – loro sono in grado di offrire ai proprietari, quasi tutti pratesi, cifre fino a dieci volte più alte". Possibile? Sì. L’algoritmo si deceva. Il recupero dell’investimento è garantito dalla spesa risibile della manodopera. Che è pressoché inesauribile e a bassissimo costo.

"Io fatico a pagare un ragazzo che mi aiuta nei campi – prosegue Colzi – mentre gli agricoltori cinesi hanno una forza lavoro incredibile. Sono talmente tanti da riuscire a concimare ogni singola piantina con l’Urea, un composto chimico che, tra le altre cose, andrebbe utilizzato con moderazione perché pericoloso per l’ambiente». Insomma poche regole (tranne che nei contratti d’affitto dei terreni che, sulla carta, sono inappuntabili) e massima resa. In poche parole «concorrenza sleale», in un settore che tra l’altro sente i morsi sul collo della crisi come pochi altri. «Così – dicono gli agricoltori pratesi – noi ci ritroviamo a vendere al mercato un broccolo a tre euro al chilo e il nostro vicino cinese riesce a farlo pagare la metà...".

Con una differenza sostanziale: "Io posso avere un cavolfiore più o meno bello sul banco, i loro sono tutti uguali". Già, basta dare un’occhiata alle loro cassette di verdura. Prodotti della terra uno identico all’altro, quasi fossero usciti dal nastro di una fabbrica. Un’altra ombra in più, un’altra luce in meno.