REDAZIONE PRATO

L’appello di Riccardi: "Prato è un laboratorio di integrazione etnica"

Al fondatore della Comunità di Sant’Egidio è affidata la riflessione finale della prima edizione del Festival sul difficile tema del coraggio della pace.

Al fondatore della Comunità di Sant’Egidio è affidata la riflessione finale della prima edizione del Festival sul difficile tema del coraggio della pace.

Al fondatore della Comunità di Sant’Egidio è affidata la riflessione finale della prima edizione del Festival sul difficile tema del coraggio della pace.

Tocca ad Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, chiudere Seminare Idee Festival con una meditazione sul tema del coraggio come strumento per la pace, declinando il fil rouge della prima edizione della manifestazione su uno dei temi più urgenti del momento (oggi 19,30 chiostro di San Domenico).

Professor Riccardi, in un momento storico come quello attuale, che cosa significa oggi vivere il coraggio della pace?

"L’idea della guerra è dilagante: la guerra non è lontana, una è scoppiata nel cuore dell’Europa. L’iniziativa di pace inaugurata da Donald Trump sembra avviarsi ad uno stallo e cresce la preoccupazione per una guerra che possa essere mondiale e con il rischio di un conflitto atomico. Qualcuno inizia a dire che la guerra è la compagna della vita, mentre la pace è una parentesi".

Il coraggio della pace è possibile?

"Il coraggio della pace pare un atteggiamento quasi romantico. E’ possibile il coraggio della pace o è possibile accettare la realtà conflittuale che si disegna? Penso che dobbiamo far riferimento alla Costituzione, allo Statuto delle Nazioni unite che proclamano la pace per evitare che si ripeta il flagello della II Guerra mondiale. La pace è stata un’illusione? E’ la domanda che mi pongo mentre provo a disegnare un possibile coraggio di pace. Pace e guerra oggi possono stare insieme?".

La gente non vuole ’la guerra mondiale a pezzi’, ma di fatto spesso c’è rassegnazione.

"Chi ha vissuto la guerra ne conosce gli orrori: sono soldati e militari che sanno fare la pace. La guerra in un certo senso è diventata lontana dal nostro mondo quotidiano e forse si devono toccare con le mani le vittime della guerra per accorgersi di tale orrore. Siamo sommersi da tante notizie e immagini: la realtà delle diverse tragedie si annullano l’una con l’altra. Sentiamo di dover sopravvivere ad un senso tragico della storia, ci sentiamo impotenti di fronte alle guerre più grandi di noi; ma tutti noi possiamo fare qualcosa nel nostro quotidiano".

Che cosa e come farlo?

"Prima di tutto ci si deve informare per bene e muoversi per la pace facendo pressioni giuste. Ci dobbiamo ricordare quello che diceva un monaco ortodosso, Anastasio di Albania: ‘il contrario della pace non è la guerra, ma l’egoismo. Le guerre iniziano nell’egoismo di gruppo’. Il mondo autocentrato non ha capito che la distruzione dell’altro è la distruzione di me stesso".

Come vede dal suo osservatorio le ferite del fronte ucraino e Mediorientale?

"Purtroppo c’è da dire che il ritorno dell’antisemitismo esiste e preoccupa. In Ucraina c’è una guerra senza fine. In Medioriente, da una parte abbiamo l’aggressione di Hamas ad Israele con ostaggi ancora in manoi: è un fatto che sconcerta. D’altra parte ci sono i bombardamenti su Gaza, dolorississimi ed inaccettabili".

A Prato lei è stato come ministro dell’Immigrazione e la conosce come città di oltre 120 etnie. Può essere un laboratorio di integrazione?

"Prato è un laboratorio in cui si può vivere la diversità etnica come risorsa: dimostra che siamo in un tempo in cui non esiste più una società omogenea, ma una società in cui il diverso vive accanto a me. Ognuno di noi ha bisogno dell’altro".

Sara Bessi