"Io che ho narrato il grande sogno di Prato sento una speranza: vedere quella luce lì"

Edoardo Nesi parla del suo ultimo libro dedicato al padre. "Le persone torneranno a vivere e il tessile ripartirà. Grazie ai ragazzi"

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di Anna Beltrame

Edoardo Nesi, nell’ultima pagina del libro, dopo l’indice, in mezzo al bianco, ha scritto: quella luce lì

"E’ un’abitudine che ho preso quella di nascondere alla fine qualche parola. A volte, mi sono accorto, sono cose che provano ad anticipare il futuro. Magari è il seme del libro nuovo che scriverò, speriamo sia così, che ci sia una luce da vedere, ci deve essere".

Non è facile però vederla oggi la luce.

"Questa seconda ondata è molto più difficile. Mi ero illuso, avevo voluto credere alla fine del virus, anche perché non si può continuare a togliere la libertà alle persone. E’ stato come precipitare in un incubo. Penso che per molti sia stato così".

A Prato per tanti c’è anche l’incubo di perdere il lavoro, di averlo già perduto.

"Prato nei mesi scorsi era riuscita a ripartire, i segnali erano buoni. Penso che quando ci saranno i vaccini le persone vorranno tornare a vivere, perché troppo è stato compresso. E allora la gente avrà bisogno anche del piacere di vestirsi. Il tessile e la moda ripartiranno, di questo sono convinto".

Basta non riparta solo la fast fashion, i cenci da due lire prodotti da lavoratori schiavizzati, da usare e poi gettare...

"La fast fashion è un disastro assoluto che fa male a tutto. Oltre allo sfruttamento delle persone e alle conseguenze per l’ambiente, ci sono i danni alla psicologia delle persone, che comprano roba per usarla una volta, postare una foto su Instagram e buttarla via. E’ uno scandalo".

Finirà?

"Secondo me è un meccanismo marcio e finito. In questi giorni di black friday ci sono aziende in Inghilterra che vendono capi di abbigliamento a una sterlina, perché hanno i magazzini pieni di quella roba rimasta invenduta. Non è possibile che le persone pensino che comprare una camicia bella o una camicia brutta sia la stessa cosa, da nessun punto di vista si può andare avanti così. Se come ti vesti è importante, lo è anche il capo che indossi. Per me lo è sempre stato, anche quando da ragazzo andavo a comprare all’usato ed ero felice di aver trovato quel gran bel cappotto fatto in Germania, ma il filato era nostro, era di Prato. Ecco, se tu dici a un ragazzo che tutti i sabati può comprare una camicia o una maglia nuova, tutto perde valore".

I ragazzi: è a loro che si dovrebbe dare valore, offrire un futuro, opportunità di lavoro.

"Conosco tanti giovani di valore che dall’Italia, da Prato, se ne sono andati perché un futuro non lo vedevano. Questa situazione deve essere capovolta. In un mondo che cambia così rapidamente, in cui la direzione chiara è l’on line – e in questi mesi lo abbiamo visto benissimo –, è impossibile non immaginare che lavorino i ragazzi. Certo è più facile dirlo, che farlo. Ma questa è la strada: sono loro da ascoltare e da coinvolgere".

Lei scrive: Sono il figlio e l’erede di una rovina, io, non il padre.

"Spesso la nostra generazione viene incolpata di tanti delitti. Certo qualche colpa ce l’abbiamo, ma non si deve mai dimenticare che noi siamo anche quelli che hanno lanciato l’ultimo hurrà, gli ultimi ad arrivare alla festa del secolo speciale di cui parla Robert J. Gordon, economista insigne che cito nel mio libro. Noi siamo quelli a cui il sogno è stato interrotto, il volo è stato interrotto. In fondo siamo stati puniti abbastanza per quello che abbiamo fatto".

Sente la colpa di aver venduto l’azienda di famiglia?

"Sono passati 16 anni e sono tanti. Ma traumi così per un imprenditore non finiscono mai".

Ha scritto: Mi incanto a guardare quella perfetta identificazione tra vita e lavoro che a me quando lavoravo nell’azienda di famiglia, non era mai riuscito di conquistare

"E’ vero. Mi sono innamorato di quel lavoro quando è finito".

E’ stato assessore e parlamentare: le manca la politica?

"No, assolutamente. Mi mancano tante altre cose, soprattutto la giovinezza".

Fra i protagonisti del suo libro c’è un economista di fama mondiale, un italiano: ogni tanto, quando sono più sperduto di fronte agli accadimenti, telefono a Enrico Giovannini.

"Non ho mai avuto un’ideologia, cerco di capire le cose che succedono e ho bisogno di parlare con chi sa più cose di me. Come ho scritto, Giovannini dovrebbe diventare quanto prima presidente del consiglio".

E a Prato?

"C’è una persona di valore ed è Valerio Barberis. E’ riuscito a far parlare della nostra città non per i cinesi o per i problemi dell’economia, ma per i suoi progetti urbanistici, per la sua visione della città. Ammiro la sua passione, l’energia, la speranza nel futuro che mostra".

C’era un futuro che non finiva mai. Il suo amico ed ex magazziniere del Lanificio Nesi, Carmine Schiavo. In epigrafe del suo libro.

"Ci sono frasi perfette per raccontare un mondo. Quella pronunciata da Carmine lo è: rappresenta ciò che Prato era, la capacità che aveva di spargere benessere e speranza a tutti. Imprenditori, artigiani, operai".

Economia sentimentale è dedicato a suo padre, scomparso nel 2018. Si sente in ogni pagina, le ultime le illumina in un modo che commuove.

"Mi è costato tantissimo scrivere la parte finale del libro e allo stesso tempo dovevo. So che se c’è un modo per me di superare i dolori più grandi è quello di poterne scrivere".

Suo padre, lei scrive, disse che il mondo era libero e immenso e pieno di promesse e di felicità e di prosperità, e che se mi fossi impegnato, se avessi lavorato quanto aveva lavorato lui, mi sarebbe andata cento volte meglio perché, invece che da Narnali, io partivo dal tetto del mondo.

Dov’è adesso per lei il tetto del mondo?

"Il babbo aveva sogni, Carmine aveva sogni, Prato aveva sogni. Scrivo libri da ormai 25 anni ed è come se non avessi mai smesso di sforzarmi di raccontare quell’energia, la stessa che si poteva trovare a Los Angeles o New York, era qui, in una città di provincia. Forse è toccato a me fare questo, provare ad essere il narratore di quel sogno collettivo che era intorno a noi".