Il Monteferrato e la nostra Figline Scoprire Prato nelle pagine di Dante

Secondo uno dei più accreditati dantisti, Giulio Ferroni, la ‘Fegghine’ citata nel canto XVI del Paradiso non sarebbe Figline Valdarno ma quella pratese. Un’intuizione che aveva avuto anche Malaparte

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"Ma se presso al mattin del ver si sogna tu sentirai, di qua da picciol tempo di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna". È nel contesto della più celebre tra le invettive scagliate da Dante contro Firenze che, com’è noto, compare l’unico riferimento a Prato della Divina Commedia. Profetizzando nel Canto XXVI dell’Inferno la prossima rovina della città natale, il Sommo Poeta immaginava che in questo modo sarebbero state soddisfatte tutte le altre città toscane, tra le quali Prato era assunta come simbolo. La scarsa attenzione dedicata da Dante a Prato è sempre stata notata con sorpresa dai commentatori, considerata l’importanza delle relazioni che la famiglia Alighieri intratteneva con la città del Bisenzio.

Ma non era stato di questo avviso Curzio Malaparte, il quale aveva immaginato che Dante fosse sceso all’Inferno attraverso "una cava di marmo verde abbandonata da secoli" che si trovava "sotto la terza gobba del Monferrato", poco sopra la strada "lungo la Bardena" che portava da Galceti a Figline, e che la "selva selvaggia" nella quale si era perso fosse proprio "la pineta di Galceti". Lui l’aveva denominata "la Spelonca di Dante", ma oggi i pratesi la conoscono come la ‘Grotta Malaparte’. Fantasie di un ‘maledetto pratese’? A noi pare proprio di no, perché le prime terzine del poema parlano chiaro: "Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto, là dove terminava quella valle che m’avea di paura il cor computo, guardai in alto e vidi le sue spalle vestite già de’ raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogni calle". Il colle sembra proprio il Monteferrato, mentre la pianura che si apre ai suoi piedi ha tutta l’aria di essere quella pratese. Era l’alba, Dante si era appena ripreso dallo smarrimento della "selva oscura", stava appoggiato con le spalle alla roccia che sovrasta la Grotta e aveva visto la sommità del Monteferrato illuminata dai raggi del Sole (considerato allora un pianeta) che era appena sorto dalla Calvana. Solo un’ipotesi, anche un po’ azzardata? Può darsi, ma è un’ipotesi che acquista credibilità appena proviamo a rileggere il Canto XVI del Paradiso dove compare il nome di Figline, perché ci consente di aggiungere un ulteriore, decisivo tassello ai rapporti tra Dante e Prato. "Ma la cittadinanza, ch’è or mista di Campi, di Certaldo e di Fegghine, pura vedíesi ne l’ultimo artista". Chi parla è Cacciaguida, il trisavolo di Dante, il quale ricorda, oltre a queste tre, una serie di località toscane da cui provenivano alcuni nobili di origine contadina arricchitisi con i traffici, il cui inurbamento aveva provocato la corruzione di Firenze. Finora, tutti i commentatori avevano sempre identificato ‘Fegghine’ con Figline Valdarno, ma uno dei più accreditati ‘dantisti’ contemporanei, Giulio Ferroni, ha aperto la possibilità che si tratti invece di "un’altra più piccola Figline, che è alla periferia di Prato". Se è così, appare chiaro che bisogna riscrivere l’intero capitolo dei rapporti tra Dante e la nostra città. All’epoca di Cacciaguida e a maggior ragione a quella di Dante, infatti, Figline di Prato aveva già contribuito in modo decisivo, grazie al marmo verde del suo Monteferrato, alla costruzione delle più belle chiese toscane, imponendo uno stile basato sulla bicromia delle facciate che ha lasciato una traccia indelebile nella storia dell’architettura moderna. Cosa sarebbero stati il Battistero di San Giovanni e il Campanile di Giotto a Firenze, se non ci fossero state le cave di serpentino di Figline di Prato? Lo stesso vale per la Badia Fiesolana e la chiesa di San Miniato al Monte, sempre a Firenze, per il Duomo di Pistoia, di Siena, di Orvieto, e ovviamente per quello di Santo Stefano a Prato, per non parlare di San Francesco e di tante altre chiese pratesi. Mentre Figline Valdarno cominciava ad essere ricostruita in pianura dopo la sua distruzione nel 1252, l’altra Figline, quella nostra di Prato, possedeva già la sua bella Pieve di San Pietro con il tipico contrasto di bianco e verde della facciata, costruita alla metà del 1100, ma prosperavano anche le cave del Monteferrato e le botteghe per la fabbricazione di vasellame e ceramiche da cui derivava il proprio nome.

Malaparte e Ferroni hanno dunque visto giusto: quando Dante era passato da Prato non si era limitato a risalire la "valle onde Bisenzio si dichina" verso Rocca Cerbaia, ma si era spinto fino a Figline per vedere di persona le cave di marmo verde con cui era stato costruito il suo "bel San Giovanni", il Battistero fiorentino dov’era stato battezzato. E perché no, aveva immaginato di scendere all’Inferno proprio per uno degli anfratti del Monteferrato. Anche se, ai suoi tempi, il monte era completamente privo di vegetazione e non esisteva ancora la famosa Grotta, visto che si tratta di un cunicolo costruito nell’Ottocento per cercare se, oltre al marmo verde, Figline poteva regalare alla Toscana anche rame e oro.

Walter Bernardi

(Presidente dell’associazione Malaparte pratese nel mondo) don Giuseppe Billi

(Pievano di Figline di Prato

e storico dell’arte)