L'infanzia, gli studi, le botteghe e la guerra: Gaiffi rivive nel ricordo di Papini

Il ricordo dell'amato professore nelle parole di Giuliano Papini

Vasco Gaiffi, a destra, in uno scatto del 1950 all'Abetone

Vasco Gaiffi, a destra, in uno scatto del 1950 all'Abetone

Pistoia, 15 marzo 2019 - La macchina del tempo si riavvolge e fa un tuffo nel passato. Quel passato che ha visto amici e complici Giuliano Papini e Vasco Gaiffi, l'amatissimo prof del Forteguerri morto pochi giorni fa all'età di 92 anni. Ed è nelle parole di Papini che rivive un commosso e commovente ricordo di Gaiffi. 

"Il più lontano ricordo che ho di Vasco risale a uno degli ultimi anni Venti, il 1928 o 1929 - scrive Papini -. Il padre, Nello, di professione sarto, un giorno sbarcò la famiglia al primo piano della casa dove all’ultimo abitavo anche io, nella vecchia via Lucchese. C’erano la madre, Dina, il fratello Alvaro e la sorella Superga così chiamata in onore della basilica di Torino, città dove la famiglia si era trattenuta un po’, dopo la Grande Guerra, prima di rientrare in Toscana. Vasco era allora un frugoletto di due anni e mezzo o tre, io un bambino di cinque o sei anni".

"Lo ricordo ricciutello, vispo, ma non troppo espansivo. La differenza di età, se pur modesta, ci portò nella scuola in classi diverse. Una simpatica memoria è quella di una festa in cui i ragazzini, vestiti da cuochi, si presentavano su un palcoscenico cantando questa canzoncina: Di cuochini ancora in erba ecco qua lieta riunione: chi vuol pranzo o colazione si rivolga tosto a me. È fra tutti quel del cuoco il più caro e bel mestiere: senza questo e senza bere non si può davvero star. Ricordo che Vasco era un po’ stonato nel cantare, ma per fortuna le sue stecche non si notavano nel coro. Insieme abbiamo rievocato più volte con il cuore pieno di nostalgia la nostra cara vecchia strada: la macelleria Oreste Mati e figlio con la grande testa marmorea di toro per insegna, la bottega dello zoccolaio dove quell’artigiano tagliava gli zoccoli di legno e vi applicava sopra una larga striscia di pelle, la fiaschetteria Morandini dove si riunivano gli anziani a giocare il fiasco, e dove si poteva gustare anche il biroldo di vitello, l’osteria di Maso Frosini che sfornava i caldi migliacci di maiale detti roventini, propagandati dal figlio Abbo a gran voce sul crocevia: roventini, belli caldi che brucian davvero, veh! A sette centesimi l’uno non c’è memoria: son da Maso".

"Altri personaggi della strada erano la maestra Santoli, parente di Quinto, lo storico e professore, poi preside al Forteguerri. E c’era il forno della Fine, poi ribattezzato “della paura”, con in vetrina le sue focaccine bene oliate e appetitose. Dopo la porta di Felice, il ferroviere in pensione tenuto d’occhio dal regime perché in fama di irriducibile socialista, si apriva l’orto dei Rosati, con il grande abete, vivaio di piante ornamentali gestito dopo la morte del vecchio Pietro da Ugo e Berto. Il figlio di Ugo, Giorgio, faceva parte della brigata degli amici, la moglie Olga purtroppo non stava bene in salute mentale e tentò anche il suicidio gettandosi in un pozzo nero. Tutto questo spesso con Vasco rammentavamo e ci avvolgevamo nella dolce malinconia delle memorie. Con il passare del tempo, giungemmo agli anni Trenta".

"Vasco si diplomò presso l’Istituto Magistrale, ma volle anche conseguire la Maturità classica, il che fu possibile mediante un esame integrativo. Io, che avevo frequentato il Ginnasio e il Liceo classico, gli fornii molti libri di Greco, che lo appassionavano assai. Vasco non disdegnò di aiutare la famiglia, che certo non navigava nell’oro, con un lavoro part-time presso lo spedizioniere Bizzarri. All’Università ci iscrivemmo a Lettere e Filosofia: Vasco si laureò con Ettore Bignone, discutendo una tesi sul poeta alessandrino Leonida di Taranto, io con il prof. Nicola Terzaghi che per qualche tempo sostituì Giorgio Pasquali. Intanto era passata la ventata della guerra. Ricordo la sera del '43 quando Pistoia fu bombardata dalla RAF. Suonato l’allarme, sotto la luce dei bengala che scendevano lenti dal cielo, Vasco ed io cercammo di fuggire verso la campagna, ma le bombe che già sibilavano e scoppiavano ci costrinsero a trovare rifugio in una fossa accanto alle Case Popolari dentro un’ammucchiata di gente terrorizzata".

"Lo sfollamento ci allontanò: lui, con la famiglia, dimorò a San Pantaleo, io, con i miei, in una villa sotto il convento di Giaccherino. Con la pace, venne la stagione dei concorsi per vincere una cattedra nella scuola statale. Ricordo certe sere a Roma in albergo a studiare, insieme con un altro carissimo amico scomparso, il prof. Antonio, detto anche Imo, Gorini. Vasco vinse la cattedra di Italiano e Latino e dopo una permanenza a Città di Castello, fu trasferito al Forteguerri; io la cattedra di Latino e Greco che tenni a Piombino, a Livorno a Prato e infine pure al Forteguerri di Pistoia. Il resto è storia recente: il brutto Alzheimer e la scomparsa. Addio, Vasco, o meglio A Dio! Sono certo che tu, religioso e ossequente, sei in Paradiso".