Milianti, da scalpellino a campione di sci

Compie ottant’anni Paride, il più giovane degli atleti della 'valanga abetonese'. L'intervista: "Quella volta che sono scampato alla fuciliazione dei nazisti"

Paride Milianti con Celina Seghi (Fotocastellani)

Paride Milianti con Celina Seghi (Fotocastellani)

Pistoia, 20 agosto 2014 - COMPIRÀ ottant’anni domani ma ha già avvisato amici e parenti che di feste, candeline e torte non ne vuol proprio sapere. Forse andrà a funghi, la sua grande passione, come fa ogni volta che il tempo glielo consente: sveglia prima dell’alba per essere il primo nei «suoi» boschi e respirare quell’aria di montagna che l’ha portato al traguardo delle ottanta primavere con un fisico e una mente invidiabili. Incontriamo Paride Milianti nel suo negozio di sport, in piazza all’Abetone. Un campione vero, vissuto lontano dai riflettori ma con un palmares di tutto rispetto: campione italiano di slalom speciale nel 1957 e 1965 e di slalom gigante nel 1962, ha partecipato a tre olimpiadi (Cortina 1956, Squaw Valley 1960, Innsbruck 1964) e altrettanti mondiali (Aare 1954, Badestein 1958, Chamonix 1962) ottenendo sempre risultati di prestigio. Terminata la carriera da atleta, Milianti ha avuto successo anche come allenatore: nel 1966 viene chiamato dalla Federazione nella squadra degli allenatori che prepareranno gli atleti della famosa «Valanga azzurra»: sono suoi allievi Piero Gros, Paolo De Chiesa, Tino Pietrogiovanna, Herbert Plank e Fausto Radici.  Partiamo da lontano, dall’infanzia trascorsa tra i boschi dell’Abetone... «Sono nato nella frazione di Pianaccio, a poca distanza dalle Regine: mio padre Renato era guardia comunale, mia madre Angela Fivizzani si occupava della casa e degli animali». L’esordio con gli sci? «Il primo paio me li regalò nonno Michele: avevo sì e no cinque anni. Un giorno caddi e mi ruppi una gamba: il nonno ci rimase così male che prese gli sci e li spaccò». In seguito, però, le cose andarono meglio... «Decisamente: a tredici anni vinsi la prima gara all’Abetone e poi venni convocato per i campionati italiani all’Aprica». Nel frattempo cosa faceva per vivere? «Ero scalpellino: lavoravo con lo zio paterno Aldo: molte delle pietre che si vedono all’Abetone sono state estratte e lavorate da noi». Ricordi della guerra? «Nonostante avessi solo una decina d’anni ho ricordi molto nitidi di quel periodo terribile. Nel giugno del 1944 sono stato a un passo dall’essere ucciso per rappresaglia: i partigiani avevano ammazzato tre militari giapponesi e un tedesco. Venimmo radunati in un piazzale davanti a una mitragliatrice: ci salvammo soltanto grazie all’intercessione di un capitano delle SS che si era innamorato di una nostra compaesana di nome Maura». La carriera di sciatore vera e propria quando ebbe inizio? «Nel dopoguerra feci il militare a Courmayeur negli Alpini poi riuscii a entrare in Polizia, nonostante fossi più basso del metro e settanta necessario. Nelle ‘Fiamme Oro’ ho trascorso gli anni Cinquanta e Sessanta: un periodo durante il quale mi sono tolto tante soddisfazioni. La più grande di tutte? La vittoria nel 1962 della 3 Tre a Madonna di Campiglio». Nella sua carriera ha avuto diversi infortuni. Ha mai avuto paura di morire? «Certo. Mi ricordo in particolare di una volta in Canada, durante un allenamento, quando persi completamente il controllo degli sci e finii fuori pista. Sfiorai decine di alberi a gran velocità. Eppure atterrai praticamente illeso». Che tipo di rapporti ha avuto con gli altri grandi dello sci abetonese? «Ottimi con tutti. Il mio preferito è stato sicuramente Vittorio Chierroni, che mi ha fatto da maestro. Ho condiviso tanto anche con Zeno Colò: un grande uomo, oltre che un grandissimo atleta, che ha dato tanto a questo territorio. Senza dimenticare lei, la regina dello sci abetonese: Celina Seghi». Come ha fatto l’Abetone a sfornare tanti talenti in così pochi anni? Esisteva una «ricetta Abetone»? «Sì: quassù abbiamo sempre avuto piste molto strette e ghiacciate, che ci hanno consentito una preparazione che si è dimostrata utilissima in tutto il mondo. E che ci hanno permesso di imparare a non aver paura». Milianti, lei scia ancora? «No: ho smesso due inverni fa. Non ho più il fisico di una volta e per come sono fatto io non riesco ad andare piano. Un mix potenzialmente pericolosissimo alla mia età. Ho ripiegato, si fa per dire visto che è l’altra mia grande passione dopo lo sci, sulla ricerca dei funghi. Con ottimi risultati (sorride, ndr)». Un ricordo della spedizione del 2001 al Polo Nord, affrontata ad «appena» 67 anni? «Un’esperienza fantastica con persone eccezionali del calibro di Amedeo D’Aosta e Mike Bongiorno che mi ha fatto vivere delle emozioni indescrivibili e ammirare panorami fiabeschi». Ottant’anni è un gran bel traguardo: qualche rimpianto? «Assolutamente no: non ho l’abitudine di guardarmi indietro e non ho nessun motivo per lamentarmi. E ora, mi scusi, ma devo lasciarla. Sa, devo tornare al mio lavoro in negozio...».