Covid, "Tanti contagi ma non c'è un caso Pistoia. Decisivi comportamenti e vaccini"

L’analisi dell’epidemiologo dopo la fine del lungo periodo in zona rossa: "Ecco cosa serve per battere l’epidemia. Difendiamo gli ospedali"

Il dottor Francesco Cipriani

Il dottor Francesco Cipriani

Pistoia, 13 aprile 2021 - Ci siamo appena lasciati alle spalle l’impegno della zona rossa per tanti cittadini che, da ieri, si sono riaffacciati su una dimensione meno restrittiva colorata di arancione. La speranza di tutti è che questo calo dei contagi che ha portato all’alleggerimento delle misure, sia non soltanto duraturo, ma che ci sia una ulteriore diminuzione. Intanto abbiamo chiesto al dottor Francesco Cipriani, a capo dell’Unità funzionale di epidemiologia dell’Asl Toscana Centro, un’analisi dell’epidemia in provincia. Ha avuto modo di osservare la situazione e l’andamento dei contagi da covid19 nella provincia di Pistoia. Possiamo parlare di un impatto delle cosiddette varianti? "C’è stata una ripresa diffusa del contagio che può essere collegato anche alla variante inglese, che ormai un po’ in tutta Italia sta diventando predominante. La ripresa dei contagi è segnale certo anche di scarsa efficienza nel distanziamento sociale. Troppa gente disinvolta e distratta". Che differenze ha potuto notare rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, parliamo soprattutto di febbraio e marzo? "Intanto il numero dei contagi. Molti di più. E di più tra i giovani. Di conseguenza anche un numero di ricoveri e decessi nella seconda e terza ondata maggiore rispetto a quelli della prima. I casi nella prima ondata sono stati contenuti grazie a un rigoroso ed efficace lockdown. Ci siamo portati dietro per mesi i vantaggi di questo comportamento virtuoso della primavera 2020. Ma nella prima ondata abbiamo pagato molto per focolai negli ambienti sanitari e nelle Rsa. Nella seconda e terza ondata tutto è stato meglio sotto controllo perchè sapevamo cosa fare, come difenderci. Siamo più organizzati. Per esempio, sempre più persone con il covid sono state curate a casa in sicurezza. Un lavoro casa per casa". Esiste ancora il «caso Pistoia»? "Nel nostro servizio di epidemiologia, anche con i colleghi, non abbiamo mai creduto a ’un caso’ Pistoia. Certo, ogni luogo ha le sue specificità. Ma nell’area pistoiese la diffusione dell’epidemia è coerente con i modelli di contagio delle aree metropolitane, dove ci sono molti spostamenti per lavoro e per la consueta mobilità cittadina. Il coronavirus si diffonde per via aeree e quasi tutto si spiega con questo. E’ la spiegazione più ovvia ma anche la più credibile. A Pistoia in una fase della prima ondata dell’epidemia i casi erano meno che in altre zone, poi sono diventati di più. E’ la normale dinamica epidemica. Non crediamo che a Pistoia vi siano condizioni speciali da giustificare differenze rispetto ad altre aree. Né nell’organizzazione dei servizi sanitari e sociali né nei comportamenti dei pistoiesi". Pistoia provincia è stata in zona rossa dal 27 febbraio fino a ieri. Abbiamo assistito a un calo dei contagi molto lento. Perchè? "Non lo sappiamo con precisione, ma tutto fa pensare che c’è una difficoltà nel mantenere il distanziamento e sarebbero minori le attenzioni che i cittadini avevano fino a qualche mese fa, come sta accadendo un po’ ovunque. Le persone sono sempre più stanche e meno disponibili a tenere alta la guardia. Le restrizioni da zona rossa di Pistoia – come delle altre città peraltro – non sono certo le stesse rigorose del primo lockdown. Certo, ci aspettavamo un calo già in questi giorni, per l’effetto combinato delle restrizioni e delle vaccinazioni, ma non esiste nessun caso speciale pistoiese". Cosa avrebbe suggerito lei per limitarli? "Sappiamo con certezza che abbiamo soltanto due modi per contenere la diffusione del virus quando questo raggiunge la diffusione che ha adesso: distanze e vaccini. Quindi subito restrizioni e chiusure. Ogni occasione di movimento è un contributo alla diffusione e all’aumento dei casi, e quindi anche dei ricoveri e dei decessi. Oltre a mascherine e igiene delle mani, è sufficiente stare a distanza e usare il buon senso: non stare a lungo in locali chiusi, usare mezzi pubblici solo se è inevitabile, stanze sempre areate ovunque, stare nei negozi solo per il tempo necessario, non intrattenersi a parlare, non alzare la voce o urlare. Stare connessi via web. Comportamenti morigerati, se non si è soli. La maggioranza delle persone segue queste indicazioni perchè ha capito e ha paura. Pochi, ma pericolosi, non lo fanno, attenti a se stessi e sordi all’interesse collettivo. La salute dipende ora come non mai dai comportamenti di ognuno di noi". C’erano soluzioni migliori? "Sì. Chiusure severe per aree geografiche ampie e tempi più lunghi, magari nei periodi commercialmente meno ’vivaci’, come novembre o gennaio-febbraio per guadagnare tempo e arrivare alle vaccinazioni, che fanno la svolta. E’ un anno di straordinaria gravità e non c’è da meravigliarsi se si devono prendere decisioni altrettanto straordinarie. Importante è non arrivare ad avere mai ospedali in difficoltà per periodi troppo lunghi. Questo deve essere il parametro immediato di riferimento per chi decide. Non è facile, capisco. E qualunque decisione espone a danni collaterali". La malattia è cambiata? "Al momento sembra che le varianti siano semplicemente più contagiose, ma non più gravi. Il maggior numero di persone giovani con problemi anche importanti che in queste settimane – rispetto alla prima e seconda ondata – arriva al pronto soccorso e al ricovero sarebbe solo il frutto del numero maggiore di persone contagiate. Nei convegni scientifici internazionali online con i nostri colleghi epidemiologi prevale l’idea che non ci sarebbero prove convincenti di una maggiore gravità della malattia. Né un aumento della letalità". Quale può essere l’evoluzione dell’epidemia da ora in poi? "Se procediamo velocemente a vaccinare anziani e fragili come stiamo facendo, anche con la presenza di variante inglese più contagiosa, se i cittadini mantengono ancora un po’ di autodisciplina e se i vaccini continuano ad arrivare, si dovrebbe ridurre l’arrivo di malati al pronto soccorso e agli ospedali già nelle prossime settimane. Ed è questo è il vero obiettivo prioritario: riportare gli ospedali all’attività ordinaria".

lucia agati