Pistoia, 4 gennaio 2013 -  NELLA CASSAFORTE di don Mario c’erano tanti, tanti soldi. Almeno, pare, trecentomila euro. E qualcuno lo sapeva. Ha architettato l’assalto e la selvaggia aggressione tendendo una trappola al parroco di Tizzana subito dopo cena. Una novità clamorosa che potrebbe anche cambiare la posizione delle tessere che compongono questo complesso, tragico mosaico.

 

Una cifra simile può aver scatenato l’ingordigia di chiunque. E una banda di feroci assassini è in fuga con trecentomila euro. Gli inquirenti stanno lavorando con grande ritmo e con un velato, scaramantico ottimismo. A breve arriveranno i risultati dei Ris sulle tracce, ci immaginiamo molteplici, rilevate sul luogo del delitto. Arriveranno anche le immagini di ogni videocamera installata in zona e sulla rete autostradale, toscana e non, mentre i tabulati rilevati dal traffico del cellulare di don Mario Del Becaro, il prete di 63 anni massacrato la notte del 28 dicembre nella sua canonica, a Tizzana, stanno consentendo agli investigatori di ricostruire la sua vasta rete di contatti.


La domanda, inevitabile, è: perchè don Mario ha commesso la fatale imprudenza di tenere tutti quei soldi in casa e, ancora più fatalmente, di averne rivelato a qualcuno l’esistenza? Si tratta forse della somma ereditata in seguito alla morte della zia Esterina, avvenuta circa un anno fa e che i suoi fratelli ritenevano avesse, al sicuro, in banca?
Si tratta quindi di quella imprudenza «pagata cara» cui accennavano gli inquirenti fin dalle prime ore dopo l’omicidio?


Tutte risposte che arriveranno al momento in cui gli investigatori dell’Arma approderanno alla verità che tutti, e loro per primi, sperano di raggiungere quanto prima.
Una banda feroce dunque, tre, quattro, forse addirittura cinque persone, non si sa se tutti stranieri o no, ma che avrebbe agito mirando soprattutto a tutti quei soldi. E forse non avevano nemmeno l’intenzione di uccidere don Mario, picchiato a sangue per farsi aprire la cassaforte e poi soffocato da un calzino che qualcuno gli aveva spinto troppo a fondo, in gola, per impedirgli di gridare.
Con l’altro calzino gli avevano legato i piedi. Le mani le avevano strette con uno strofinaccio e gli avevano poi sigillato la bocca con del nastro adesivo, per poi ricoprirgli la faccia con una sciarpa, alla stregua di un cappuccio. Volevano garantirsi la fuga. Volevano essere sicuri che non desse l’allarme. Ma così lo hanno ucciso.


Una tessera importantissima di questo mosaico di sangue resta ancora l’auto di don Mario, una Fiat Punto chiara. Non si trova, per il momento. Potrebbe essere stata nascosta.
lucia agati