Marco Falaguasta, i suoi personaggi e il suo modo di narrare la società

Il direttore artistico del teatro Testaccio intervistato dall’autrice pisana Francesca Padula

Marco Falaguasta, attore di fiction, teatro e cinema, ma anche autore e regista

Marco Falaguasta, attore di fiction, teatro e cinema, ma anche autore e regista

Pisa, 6 febbraio 2019 - Marco Falaguasta, attore di fiction, teatro e cinema, ma anche autore e regista, si racconta all’autrice pisana Francesca Padula. Un sognatore ed un romantico, appassionato dei nostri tempi, con la mente e la penna sempre rivolte a ciò che lo circonda.

Nelle fiction televisive ha interpretato più volte il cattivo o comunque un personaggio ambiguo, uno “squalo”, ma anche ruoli positivi come difensori della legge. In entrambi i casi i personaggi erano intensi e profondi e con più sfaccettature. Quali ruoli ha preferito interpretare, quelli più lontani o quelli più vicini alla sua natura (di buono)?

«A me piace tendenzialmente interpretare i ruoli belli, che poi siano vicini o lontani da come sono io è una considerazione che magari svolgo in un secondo momento. L’importante è che il ruolo sia un ruolo bello. Poi tra questi è chiaro che fare un qualcosa che sia completamente lontano dalle tue corde è sicuramente più avvincente ed appassionante. Perché ti dà modo di sperimentare altre dinamiche e, magari, anche di scoprire che non sei poi così distante da quel ruolo come pensavi di essere. Scoprire all’interno di te stesso delle corde diverse da quelle che ritenevi di avere, è sempre qualcosa di interessante. Anche perché il ruolo che sembra discostarsi tanto dalle tue caratteristiche, magari va a finire che invece ti avvicina a te stesso molto più di tanti altri».

Da direttore artistico del teatro Testaccio, la scorsa stagione ha portato in cartellone la commedia dell’arte. Quanto è importante questo tipo di formazione perché un attore lo sia con la A maiuscola in tutti i campi?

«La formazione è fondamentale, perché ti consente di diventare il tribunale di te stesso. Sapendo come funzionano le cose ti fa capire anche, se tu hai quei requisiti, se davvero ti piace fare l’attore o il comunicatore o è solo autoreferenzialità. La formazione ti consente di capire se hai le carte in regola per aspirare a livelli sempre più alti. E ti fa capire che il successo non è un diritto, ma passa attraverso sacrificio, tenacia e tante porte prese in faccia, rimanendo convinti di potercela fare e in qualche maniera interviene pure sull’autostima».

Il mondo dello spettacolo però negli ultimi anni sembra andare in tutt’altra direzione…

«Sì perché in questi nostri tempi è sempre più frequente la spettacolarizzazione della formazione: penso alla sovrabbondanza di talent che ci sono, dove tutto ciò che prima avveniva di nascosto, ed era giusto avvenisse di nascosto, oggi viene posto in evidenza e spettacolarizzato. I ragazzi sono molto giovani e non capiscono che comunque quella è formazione e la vivono già come successo ma, una volta che i riflettori si spengono, rimangono vittime di questo mostro a tre teste che si chiama notorietà. Non si rendono conto che il prodotto, che la carne da macello sono loro: usciti dai talent si sentono proiettati sulla luna e poi crollano quando nessuno li riconosce più e soprattutto quando cadono nello squallore di non aver nulla da dire, perché non sanno mettere due parole in croce o non hanno concetti da esprimere. Sia che si tratti di un attore, cantante, intrattenitore o presentatore stiamo parlando di comunicatori, di persone che, ognuno nella propria specificità, nel proprio ruolo, dovrebbe emozionare trasmettendomi qualcosa, comunicandomi qualcosa. Poi li sento e non sanno parlare, non sono in grado di costruire una farse in maniera corretta. Come si fa ad essere comunicatori se non si conoscono gli strumenti per comunicare?».

Adesso è cambiato anche il modo in cui avviene la comunicazione per certe forme d’arte. Ha citato i cantanti e mi viene in mente come viene fruita la musica da parte delle nuove generazioni…

«Sì, infatti. Penso a Fiorella Mannoia, alle sue canzoni, che posso ascoltare dieci volte e ogni volta mi comunicano qualcosa di diverso. Mi capita di sentire poi canzoni delle nuove leve e si avverte che c’è una spettacolarizzazione della canzone, ma dietro i lustrini e paillettes non c’è niente, dietro i tatuaggi non c’è niente. A me questo mette paura perché i nostri figli li seguono. E un genitore credo abbia il dovere di provare e l’obbligo di riuscire a far capire loro che i livelli di percezione sono tanti e non bisogna mai essere superficiali. E allo stesso tempo mi rendo conto che non è facile, perché i messaggi sono questi, molto impattanti a livello visivo. La musica adesso si vede ancora prima di sentirsi, perché oggi i nostri ragazzi sono molto “visivi”. Prima la musica doveva raccontare delle cose adesso il cantante o la cantante devono colpirti perché hanno qualcosa di particolare. Se poi vai vedere nella loro parabola professionale c’è sempre qualcosa di estremo, trasgressivo, di azzardato. Poi però le canzoni non camminano di pari passo con questa vita apparentemente a cento all’ora, esse hanno una prevedibilità ed un incedere molto banale, basico proprio. E questa basicità del livello culturale si ripercuote sulla pochezza di tante forme d’arte. Ritornando a parlare invece di cantanti che emozionano, torno a citare la Mannoia, ma anche Baglioni, Cocciante o Vasco: sono tutti cantanti che raccontano, le cui canzoni hanno significati evocati e non detti. Mentre adesso è tutto brutalmente detto e il poco che è detto è molto prevedibile e questo non sollecita riflessione o pensiero e darà vita ad una generazione che si confronta sul nulla».

Ma una via d’uscita?

«Sì, c’è. E poi tutto dipende anche dalla curiosità del singolo. Noi dal punto di vista genitoriale possiamo far sì che questi ragazzi siano curiosi di guardare oltre, di scoprire qualcos’altro, di non accontentarsi di quello che c’è in prima battuta. Credo che sia questo che vada fatto. Dare stimoli diversi. Mia figlia va ai concerti di queste nuove leve, ma poi la porto anche a teatro, le faccio vedere delle cose che siano diverse da quelle che fanno parte del suo mondo. Anche per farle vedere che c’è un’altra possibilità».

L’importanza della scrittura, nella vita di una persona e in un attore come lei che poi nei propri lavori spesso è anche autore e regista.

«La scrittura è sempre catartica, un modo per tirare fuori delle cose quando non trovi la sede giusta per esprimerle, perché sono cose che non puoi dire in occasione di una cena con amici o sono cose che per la loro complessità o profondità non hanno una spendibilità quotidiana. Quindi la scrittura è il luogo dove tiri fuori la tua visione del mondo, della società, che è l’arena dove mettiamo alla prova la nostra esperienza di vita. Io sono un appassionato dei nostri tempi e credo che tutto sommato un autore debba essere qualcuno che riporta le cronache, affinché quello che egli nota funzioni come suggerimento, come confronto con chi lo leggerà. Penso a Pasolini, autore che mi ha sempre colpito per la sua preveggenza e che sessant’anni fa aveva detto che si sarebbe immessa nella società la più pericolosa delle ideologie, il consumismo, e che sarebbe stato un sovvertire di abitudini, costumi e anche delle gerarchie sociali. Così è stato, cambiando la società ma non in meglio. Perché si potrebbe essere portati a valutare, con una visione superficiale, che una società che consuma molto sia un società in salute, ma in realtà si indebita e ciò comporta la perdita di libertà e dignità. E perdere la dignità è a dir poco triste, una cosa che impoverisce profondamente una comunità».

Il ruolo della scrittura, quindi, va ben oltre i bisogni dello scrittore stesso…

«Ed è qualcosa che a me piace molto. Scrivere il mio punto di vista su questi tempi, magari in un linguaggio trasversale che sia alla portata di tutti, è una cosa che attiva un confronto, una scintilla, una dialettica con chi è o non è d’accordo con te, ma fa sì che delle cose se ne parli e che non si sia ulteriormente anestetizzati».

Cosa intende?

«A mio giudizio così è la nostra generazione: io dico sempre che siamo una generazione di persone che, “invece di usare il piede di porco, citofona”. Non ce l’abbiamo nelle corde di essere rivoluzionari, sovversivi. Non l’abbiamo mai fatto. Siamo arrivati dopo il ‘68 con tante battaglie già fatte. Ne abbiamo fatte di nostre, ma non ne avevamo di buone… E anche per questo il ruolo di un autore è fondamentale. Secondo me, mentre altri, cito come esempio il chirurgo o l’ingegnere, si limitano a constatare certe abitudini dei nostri tempi, uno scrittore deve spiegare il perché secondo lui, cioè come si è arrivati a questo, secondo il suo parere. A questo serve, è qualcuno che dia una visuale nuova, che accenda una riflessione su un aspetto su cui non ci si era ancora soffermati. Per questo secondo me la scrittura è importante, se ha queste prerogative. Se invece è un ripetere quello che è sotto gli occhi di tutti diventa inutile».

Nella sua attività artistica ha spaziato in più generi. Un artista può attraversare fasi in cui si dedica a cose diverse, a seconda di quello che in un certo momento egli sente più vicino. Ha mai riflettuto se questo capita anche a lei?

«Sì certo, continuamente. Rientra nel campo delle insicurezze: man mano che questo si assottiglia e cresce quello delle piccole certezze, scrivi anche in maniera completamente diversa. Crescere significa arricchire il bagaglio empirico, il coraggio, e questo si ripercuote con un atto così intimo come è quello di scrivere, perché è chiaro che la crescita parla delle esperienze che hai fatto, delle delusioni vissute sulla tua pelle, delle sconfitte o delle gioie, trionfi, successi. Quindi inevitabilmente certi argomenti che ti stavano a cuore un tempo e di cui ti andava di parlare, poi quando li hai sviluppati, compresi, passi ad altro, magari anche perché capendoli hai capito che per te non sono più così nodali. Invece in quel momento ce ne sono altri che assumono il rango di argomenti importanti e ne parli, discuti e ti va di trattarli. Cambiando noi, cambia il nostro modo di scrivere. Sarebbe statico se fosse il contrario, se scrivessimo sempre alla stessa maniera e sempre delle stesse cose. Mentre la scrittura è un materiale magmatico, prende la forma e la temperatura delle varie circostanze e meno male che è così. Se così non fosse non mi appassionerebbe».

Uno spettacolo che sta portando in giro - prima e dopo “Cotto e stracotto” alle prese con Lady Burocrazia che ha debuttato il 5 febbraio 2019 al teatro Golden di Roma - è “Non si butta via niente”. Me ne vuole parlare? So che è anche un libro.

«Sì, siamo stati a Catanzaro il 19 gennaio e parla del fatto che essendo la nostra una società dalla forte vocazione consumistica c’è sovraffollamento di rifiuti perché compriamo molto più di quello che ci serve, buttiamo un sacco di roba. Oggi non si aggiusta più niente: calzini, televisioni… chi è che rammenda più un calzino o porta la TV a riparare?

Questo deriva dal fatto che non esistono più le categorie sociali, tutti compriamo tutto e a tutti viene fatto di pensare che ci piaccia tutto. Non abbiamo più un discernimento, non facciamo più una vera selezione.

Ci troviamo ad essere circondati di oggetti e perdiamo di vista quelli che sono i rapporti interpersonali. Ognuno dietro la cortina dei propri oggetti ha difficoltà a vedere l’altro».

C’è poi un bel progetto, il film breve “Mr. Food & Mrs. Wine” presentato in occasione della recente fiera del cinema di Roma. Negli ultimi tempi, ovunque, si parla di cibo. Lei in che termini ha affrontato l’argomento?

«È una bellissima storia d’amore, una commedia romantica che parla di una coppia italiana che apre un ristorante a Parigi, ma questo sta andando sempre più giù nel gradimento del pubblico. Poche presenze, non va bene… anzi, va sempre peggio, come progressivamente sta andando sempre peggio il loro rapporto. Ma siccome anche la preparazione dei cibi è una questione d’amore, scoprendo il perché il loro amore si stava affievolendo, stava quasi scomparendo, i due rifanno partire anche la buona sorte del loro ristorante.

È una storia molto tenera, che mi è molto piaciuto fare e che presto vedremo. Un progetto al quale sono molto affezionato. E Mr. Food mi assomiglia molto. Io sono apparentemente molto focalizzato su quello che sto facendo, molto pragmatico, ma sono una persona romantica anche io».

Ho letto di lei che è un grande sognatore, che non considera mai un obiettivo troppo impossibile. Credo però che lei sia anche una persona solida, con i piedi ben piantati per terra. Una cosa limita l’altra?

«Beh, solida per quanto possa esserlo una persona che cerca di attribuire sempre un senso alla propria vita… Quando si è perennemente alla ricerca di un senso, in un processo che si rigenera giorno per giorno, la solidità ce la puoi avere nella quotidianità, nelle tue strutture, ma poi mentalmente non sei mai fermo, sei sempre alla ricerca di un senso ulteriore.

Io sono un po’ così e ritengo che nulla sia impossibile. La vita mi ha insegnato ad avere più generosità e fantasia di qualsiasi sceneggiatore benevolo, quindi non pongo limiti né nel peggio, né nel meglio. Sono una persona assolutamente ottimista e questo non significa che non sia però realista.

Poi conosco bene quali siano i miei limiti, ma so bene che l’ottimismo ti aiuta a non fermarti laddove una persona pessimista ritiene di non potere andare oltre».