La storia di Albino, il "cavallo d’Italia"

E’ raccontata in un bel libro da Michele Taddei. Fu fra i pochi reduci della carica del "Savoia Cavalleria" in Russia. Presentazione allo Scotto

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di Renzo Castelli

PISA

"Steppa bianca. Memorie di Albino, cavallo da guerra" (Cantagalli Editore) è un libro tenero e drammatico, ricco di umanità e di rigore storico. Ne è autore Michele Taddei, già noto per pregevoli opere come la biografia di Bettino Ricasoli, il "barone di ferro". Il cavallo del quale Taddei racconta adesso la storia in "Steppa bianca" si chiama Albino e fu fra i protagonisti della vicenda bellica che, 80 anni fa, vide impegnato l’esercito italiano sul fronte sovietico. Il volume verrà presentato domenica 20 alle 17.30 a Pisa Scotto festival.

Albino era un maremmano nato nel 1932 che, ancora puledro, era stato requisito dall’esercito per essere domato e poi arruolato nel glorioso Reggimento "Savoia Cavalleria" e inquadrato del 2° squadrone. Il Reggimento partecipò con l’Armir alla campagna di Russia distinguendosi nella carica di Isbuscenskij nell’ansa del Don. Il 24 agosto del 1942 il "Savoia Cavalleria" affrontò alla baionetta, con irragionevole coraggio, le armi automatiche dei sovietici, un confronto disperato, destinato a essere l’ultima carica nella storia delle cavalleria italiana e forse mondiale. In quell’occasione seicento uomini del "Savoia" riuscirono a disperdere i duemila soldati dell’Armata Rossa, disorientati da quell’inaspettato nemico. Albino restò ferito a un occhio e a una zampa ma rimase in piedi resistendo al dolore fino a quando si restò sul campo a combattere. In seguito il cavallo non venne abbattuto per rispetto verso il suo eroismo e fu fatto rientrare in Italia. Il bilancio di quella campagna improvvisata fu disastroso. L’episodio eroico di Insbuscenskij, che non fu certamente il solo a vedere protagonisti soldati italiani, non può far dimenticare cosa accadde sul fronte del Don e Michele Taddei, nel suo libro, ne fa un quadro esauriente attraverso una serie di note esplicative integrate anche da alcune cifre. Che sono agghiaccianti. Dei 227.500 soldati italiani inviati sul fronte russo con l’Armir, 84.800 morirono o risultarono dispersi, 120.690 furono feriti o congelati cosicché soltanto il 10 per cento dell’Armata rientrò in Italia senza danni (altre ricerche indicano cifre ancora peggiori).

Stessa sorte toccò ai 20mila cavalli, muli, asini che erano al seguito delle truppe. Ma Albino, pur ferito, era salvo. Rientrato in Italia, non più abile al servizio militare, venne venduto a privati. Tre anni dopo, durante una fiera, fu riconosciuto da un sottufficiale del "Savoia Cavalleria" proprio dalle sue ferite: l’occhio perduto, l’ampia cicatrice sullo stinco destro. L’esercitò lo riacquistò e Albino divenne in breve il simbolo stesso dell’eroismo e del sacrificio del Reggimento e dell’intero esercito italiano in quella campagna assurda e disperata, tanto da essere definito "il cavallo d’Italia". Il Ministero gli assegnò una pensione che gli consentì di essere mantenuto in una scuderia dell’esercito a Merano fino alla sua morte che avvenne il 21 ottobre del 1960. Aveva 28 anni. La carcassa di Albino fu imbalsamata e ha oggi un posto d’onore nell’androne principale del Reggimento "Savoia Cavalleria" che ha sede a Grosseto. Durante l’anno gli fanno visita le scolaresche e tutti si commuovono al racconto di quella carica eroica avvenuta in un ormai lontanissimo giorno d’agosto nella steppa russa.