"Io, prima donna in Italia a ricevere i monoclonali"

Il racconto della nostra giornalista tra i volontari per la nuova terapia all’ospedale di Cisanello

Monoclonali

Monoclonali

Pisa, 11 marzo 2021 - Dare un senso a una malattia bastarda che sfinisce e può anche uccidere. Così, quando il professor Francesco Menichetti, direttore dell’Unità operativa di Malattie infettive di Pisa, mi ha chiesto se me la sentissi di partecipare alla sperimentazione degli anticorpi monoclonali di Astrazeneca, ho pensato che almeno il Covid avrebbe acquistato un significato: ogni ricerca (questa in particolare) è utilissima. Non tutti possono entrare nel programma, ci sono caratteristiche fondamentali, come l’avere pochi sintomi, essere in una fase precoce della malattia, aver effettuato il tampone nei tre giorni precedenti, avere sintomi da meno di sette o al massimo da una settimana, ma averne comunque almeno qualcuno nelle 24 ore precedenti. Non può aderire chi è ospedalizzato, chi ha già sviluppato la polmonite (perché lo studio serve proprio a prevenire le conseguenze più gravi), chi ha preso cortisonici e chi ha avuto reazioni allergiche a terapie simili. Io rispondevo a tutti i criteri e sono stata la prima donna in Italia, una delle prime in Europa: Cisanello è stato il primo ospedale d’Italia a partire. Ed ecco che ho voluto trasformare il contagio in un’opportunità per me e per gli altri. Il protocollo è tutto nuovo, dopo i due uomini che si sono sottoposti alla procedura il 9 marzo, sono arrivata io, ieri, accompagnata da mio marito.

Sono le 13 e vengo prelevata dall’auto dal personale sanitario, lo stesso che abbiamo intervistato in questo anno orribile. Alcuni nomi li conosco (è quasi impossibile identificare i volti, nascosti da mascherine e visiere), altri no. Da mesi, curano pazienti gravi, gravissimi, li vedono soffrire, guarire, altri morire. Seguiamo un accesso riservato per non mettere a rischio altre persone. Poi, entriamo nella stanza. Medici e infermieri sono scafandrati, restano così per ore, a giornate intere. Le domande sono tante: prelievi, esami, screening. Tutto è dettagliato, trascritto. Il medicinale viene preparato sul momento e arriva in tempo reale dalla farmacia ospedaliera. Sono due le iniezioni (da 300 milligrammi ciascuna) semplici, indolori, almeno per me.

Alla fine, si deve attendere un’ora in osservazione. Il team, guidato dal primario Francesco Menichetti (che è il promotore con l’Aoup), coadiuvato dal professor Marco Falcone, comprende anche le dottoresse Giusy Tiseo e Sara Occhineri (specializzanda all’ultimo anno), la biologa Chiara Barbieri, e nel mio turno, l’infermiera dell’ambulatorio dell’Uo Silvia Sfingi. L’obiettivo - spiegano - è anche quello di evitare uno dei problemi principali di questo virus, l’alta percentuale di ospedalizzazione. "Ma anche capire se si possa arrivare a una negativizzazione più veloce".

L’iter. La sperimentazione clinica è controllata, in "doppio cieco" (randomizzazione causale): i pazienti possono ricevere l’anticorpo o il placebo, semplice soluzione fisiologica. Nessuno conosce il contenuto della fiala, solo così si possono rilevare i reali effetti. Nell’anno che segue, resterò in carico alla struttura.

Il diario virtuale. Ogni giorno dovrò riempire, grazie a uno smartphone, una griglia standard dove mi si chiedono temperatura e il mio stato di salute. Un report che viene poi elaborato. Ci sono visite di controllo e anche chiamate informative. A breve, "forse già tra una settimana", sarà organizzato un ambulatorio per allargare l’indagine. Al momento, si cercano volontari. Non so se ho ricevuto il placebo oppure no. So che sono stata visitata in modo tempestivo, sarò seguita da esperti quotidianamente e monitorata per tutto il tempo tramite un semplice cellulare. E, se penso solo a un anno fa, questo già mi appare un grande risultato.